Nudo di donna EGON SCHIELE















sabato 6 febbraio 2016

THE CAMERA’S BLIND SPOT III. SULLA MATERIALITA’ DELLA FOTOGRAFIA


di Antonella Colaninno

Il problema della resa tridimensionale nella fotografia ha spesso sollevato riflessioni e soprattutto questioni di metodo, cercando di superare quel limite che impedisce di rendere un oggetto tridimensionale su una superficie piana. Il ciclo “The Camera’s Blind Spot” riflette sulle possibili declinazioni della materialità dell’immagine fotografica sino al punto di trasformarla in oggetto, partendo dal superamento in senso “classico” del rapporto scultura-fotografia, nel quale la fotografia documenta la tridimensionalità attraverso la riproduzione meccanica dell’immagine. 

LA CAMERA, Sulla materialità della fotografia è la terza tappa di un progetto espositivo più ampio che si è realizzato al MAN, Museo d’Arte della Provincia di Nuoro nel 2013, e all’Extra City Kunsthal di Anversa nel 2015. Questo terzo ciclo della serie, in corso presso Palazzo de’ Toschi di Bologna in piazza Minghetti, focalizza la sua ricerca sul mezzo fotografico attraverso opere di artisti contemporanei realizzate “con le tecniche fotosensibili più insolite e rare, alcune delle quali risalenti alle origini della fotografia […] il cui scopo è quello di spiazzare le aspettative comuni dello spettatore rispetto alla fotografia, e di farli sperimentare […] le meraviglie del suo avo ottocentesco […]” 
“Non è una sfida al digitale (le tecniche digitali, del resto, dalla scansione alla stampa in 3D, sono alla base di alcune delle opere in mostra) quanto alla sua egemonia assoluta […]” La scultura, alla quale la fotografia tende in questo ambito, è rappresentata dai soggetti delle immagini ma anche dagli oggetti come presenza fisica. Il lavoro di Johan Osterholm dal titolo “Structure for Moon Plates and Moon Shards”(2015) è realizzato con i vetri di una vecchia serra per i fiori spalmati di emulsione fotosensibile ed esposti alla luce della luna. “In tempi di (presunta) smaterializzazione dell’immagine fotografica, i singolari –oggetti fotografici- in mostra si propongono come sculture vere e proprie”. Si pensi anche al lavoro di Dove Allouche sulla materialità dell’immagine dal titolo Les Petrifiantes composta da 18 immagini fotografiche di stalattiti e stalagmiti fissate su vetro “con la tecnica ottocentesca dell’ambrotipia”. “Le immagini prodotte con questa tecnica […] sono di fatto dei negativi; i rapporti tonali originali vengono ripristinati semplicemente verniciando di nero il retro delle lastre”. Il lavoro di Franco Guerzoni, attento sin dagli inizi al mondo archeologico, sviluppa una “poetica fotografica della rovina” lavorando sulla superficie come profondità. Le immagini sono ottenute “stampando direttamente sulle superfici di gesso sabbiato preparate con emulsione di sali d’argento.” In Luca Trevisani la scultura resa nell’immagine fotografica non è solo una forma ma è una vera esperienza estetica in quanto rivelatrice della percezione dell’immagine, è materia pura nello spazio “nel suo divenire nel tempo” poiché vengono usati materiali deperibili come acqua, fiori e frutta. In Notes for dried and living bodies “le immagini stilizzate di foglie e fiori (nel caso dell’opera in mostra, disegnate dall’artista vittoriano William Morris), sono stampate a raggi UV su grandi foglie tropicali, creando un cortocircuito fra naturale e artificiale, immagine e cosa.”

Gli artisti in mostra: Dove Allouche, Paul Caffel, Elia Cantori, Attila Csorgo, Linda Fregni Nagler, Paolo Gioli, Franco Guerzoni, Raphael Hefti, Marie Lund, Ives Maes, Justin Matherly, Lisa Oppenheim, Johan Osterholm, Anna Lena Radlmeier, Evariste Richer, Fabio Sandri, Simon Starling, Luca Trevisani, Carlos Vela-Prado.


Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto:allestimento della prima sala (foto di Antonella Colaninno); foto dell'artista Linda Fregni Nagler; foto dell'allestimento dell'ultima sala.

venerdì 5 febbraio 2016

IL FENOMENO JAKOB TUGGENER...TRA SETE E MACCHINE


“Tuggener riesce a realizzare fotografie industriali che lo qualificano come poeta, oltre che come pittore; un illusionista unico nel suo genere, un singolare alchimista che, pur se in quantità ridotte, è in grado di tramutare  il piombo in oro” Max Eichenberger


di Antonella Colaninno


Il MAST di Bologna è un luogo sperimentale, uno spazio espositivo nonchè centro polifunzionale dove le archeologie industriali e le idee imprenditoriali rappresentano il progetto futurista della crescita economica e culturale di una visione estetica del lavoro. Sorto nel quartiere Reno di Bologna nell’ottobre del 2013, per volere dell’imprenditrice Isabella Seragnoli, Il MAST (acronimo di Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia) ospita una mostra interessante del fotografo svizzero Jakob Tuggener (1904-1988), “considerato uno dei dieci fotografi industriali di maggior spicco che siano mai esistiti”

Fotografo, ma anche regista e pittore, Tuggener si distingue per uno stile poetico e uno sguardo esistenziale che indaga sul rapporto intimo tra l’uomo e il lavoro, tra macchina e umanità. Questa poetica che unisce passione e modernità, trova il suo punto di massima riflessione nel saggio fotografico “Fabrik” pubblicato nel 1943 , sulla relazione che lega l’uomo all’universo delle macchine. Il mondo delle industrie appare dominare con la sua forza e i suoi ingranaggi, ma Tuggener indaga l’animo umano penetrando con occhio ravvicinato sulle persone e sugli oggetti, svelandone emozioni e pensieri attraverso l’obiettivo della sua Leica. 

“[…] Tuggener compose menabò pronti per la stampa: sequenze fotografiche rilegate comprendenti oltre 100 immagini originali a tutta pagina o su due pagine per le quali, però, non riuscì mai a trovare un editore adatto. L’unica eccezione fu la grandiosa “epopea illustrata della tecnica”, uscita nel 1943 con il titolo Fabrik e considerata oggi una pietra miliare nella storia del libro fotografico. Fu infatti grazie a questa pubblicazione che Tuggener trovò spazio in prestigiose collettive come la “Prima mostra internazionale biennale di fotografia” di Venezia nel 1957. Il suo destino di artista è legato alle vicende professionali e alla crisi del ’29: rimasto senza lavoro si iscrisse alla Reimann Schule di Berlino, “un’accademia privata di arte e design”. Fabrik è descritto come un pezzo di storia contemporanea e dell’umanità, un “documento vivace, scottante, uno spaccato del mondo delle macchine in tutti i suoi aspetti, sviluppi, potenzialità e limiti” (Arnold Burgauer). A prima vista, con una serie di 72 fotografie, l’artista sembra voler ripercorrere la storia dell’industrializzazione, ma da una lettura più approfondita e “con la giustapposizione associativa delle fotografie simile a un film, Tuggener mirava anche a illustrare il potenziale distruttivo del progresso tecnico indiscriminato, il cui esito, a suo vedere, era la guerra in corso, per la quale l’industria bellica svizzera produceva indisturbata.” Fabrik è considerato un successo artistico più che commerciale, poiché il testo fu svenduto e si pensa che parte dei volumi finirono persino al macero. L’opera fu sicuramente ispirata dalla conoscenza che Tuggener aveva delle fabbriche, avendo svolto un apprendistato come disegnatore tecnico proprio in uno stabilimento di Zurigo dove iniziò anche a sperimentare la fotografia. Non fu però assunto come fotografo ufficiale, ma ebbe l’incarico di realizzare “una sorta di veduta interna della fabbrica” che dovesse “colmare il divario tra operai, impiegati e direzione”, riuscendo a cogliere aspetti inconsueti e a fotografare “scene inosservate della vita quotidiana in fabbrica”.

Le immagini realizzate da Tuggener sono “composte come un montaggio cinematografico” e osservano gli aspetti inconsueti della vita quotidiana all’interno della fabbrica, per questo il fotografo riprende in primi piani il volto degli operai come il fochista o l’addetto alla caldaia, mostrando in questo modo espressioni inedite attraverso inquadrature da regista simili a sequenze “da film muto”. Ma Tuggener non realizzò solo fotografie industriali; ha lasciato infatti anche un “reportage” di immagini di balli e feste mondane nel suo stile elegante e indiscreto che indaga particolari inediti dell’alta società, rivelando la sensualità dilagante dei protagonisti e l’atmosfera estetizzante del piacere mondano. Un lavoro che però non trovò il consenso dei signori fotografati che “preferivano restare anonimi o non essere visti in compagnia di determinate signore”. Lo stesso Tuggener si definiva un artista di seta e di macchine per la sua strana predilezione per questi punti estremi della società, dove “il lusso sfrenato e le mani sporche del lavoro”, per “le donne seducenti e gli operai sudati”. “Li riteneva di egual valore artistico e rifiutava di essere classificato come un critico della società che contrapponeva due mondi antitetici.”

Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Interno del MAST: Riflessi (foto di Antonella Colaninno); Nebbia (foto di Antonella Colaninno); foto da Fabrik 1933-1953; foto da Nuits de Bal 1934-1950.