di Antonella Colaninno
Il problema della resa tridimensionale nella fotografia
ha spesso sollevato riflessioni e soprattutto questioni di metodo, cercando di
superare quel limite che impedisce di rendere un oggetto tridimensionale su una
superficie piana. Il ciclo “The Camera’s Blind Spot” riflette sulle possibili
declinazioni della materialità dell’immagine fotografica sino al punto di
trasformarla in oggetto, partendo dal superamento in senso “classico” del
rapporto scultura-fotografia, nel quale la fotografia documenta la tridimensionalità
attraverso la riproduzione meccanica dell’immagine.
LA CAMERA, Sulla
materialità della fotografia è la terza tappa di un progetto espositivo più
ampio che si è realizzato al MAN, Museo d’Arte della Provincia di Nuoro nel
2013, e all’Extra City Kunsthal di Anversa nel 2015. Questo terzo ciclo della
serie, in corso presso Palazzo de’ Toschi di Bologna in piazza Minghetti,
focalizza la sua ricerca sul mezzo fotografico attraverso opere di artisti
contemporanei realizzate “con le tecniche fotosensibili più insolite e rare,
alcune delle quali risalenti alle origini della fotografia […] il cui scopo è
quello di spiazzare le aspettative comuni dello spettatore rispetto alla
fotografia, e di farli sperimentare […] le meraviglie del suo avo ottocentesco
[…]”
“Non è una sfida al digitale (le tecniche digitali, del resto, dalla
scansione alla stampa in 3D, sono alla base di alcune delle opere in mostra)
quanto alla sua egemonia assoluta […]” La scultura, alla quale la fotografia
tende in questo ambito, è rappresentata dai soggetti delle immagini ma anche dagli oggetti come
presenza fisica. Il lavoro di Johan Osterholm dal titolo “Structure for Moon
Plates and Moon Shards”(2015) è realizzato con i vetri di una vecchia serra per
i fiori spalmati di emulsione fotosensibile ed esposti alla luce della luna.
“In tempi di (presunta) smaterializzazione dell’immagine fotografica, i
singolari –oggetti fotografici- in mostra si propongono come sculture vere e
proprie”. Si pensi anche al lavoro di Dove Allouche sulla materialità dell’immagine
dal titolo Les Petrifiantes composta da 18 immagini fotografiche di stalattiti
e stalagmiti fissate su vetro “con la tecnica ottocentesca dell’ambrotipia”.
“Le immagini prodotte con questa tecnica […] sono di fatto dei negativi; i
rapporti tonali originali vengono ripristinati semplicemente verniciando di
nero il retro delle lastre”. Il lavoro di Franco Guerzoni, attento sin dagli
inizi al mondo archeologico, sviluppa una “poetica fotografica della rovina”
lavorando sulla superficie come profondità. Le immagini sono ottenute
“stampando direttamente sulle superfici di gesso sabbiato preparate con
emulsione di sali d’argento.” In Luca Trevisani la scultura resa nell’immagine
fotografica non è solo una forma ma è una vera esperienza estetica in quanto rivelatrice
della percezione dell’immagine, è materia pura nello spazio “nel suo divenire nel
tempo” poiché vengono usati materiali deperibili come acqua, fiori e frutta. In
Notes for dried and living bodies “le immagini stilizzate di foglie e fiori
(nel caso dell’opera in mostra, disegnate dall’artista vittoriano William
Morris), sono stampate a raggi UV su grandi foglie tropicali, creando un
cortocircuito fra naturale e artificiale, immagine e cosa.”
Gli artisti in mostra: Dove Allouche, Paul Caffel, Elia
Cantori, Attila Csorgo, Linda Fregni Nagler, Paolo Gioli, Franco Guerzoni,
Raphael Hefti, Marie Lund, Ives Maes, Justin Matherly, Lisa Oppenheim, Johan
Osterholm, Anna Lena Radlmeier, Evariste Richer, Fabio Sandri, Simon Starling,
Luca Trevisani, Carlos Vela-Prado.
Pubblicato da Antonella Colaninno
In foto:allestimento della prima sala (foto di Antonella Colaninno); foto dell'artista Linda Fregni Nagler; foto dell'allestimento dell'ultima sala.