Nudo di donna EGON SCHIELE















sabato 26 marzo 2016

RENOIR: OLTRAGGIO E SEDUZIONE

di Antonella Colaninno

E’ uscito nelle sale cinematografiche italiane per la regia di Phil Grabsky il film documentario “Renoir: oltraggio e seduzione” (Exhibition On Screen: Renoir). La pellicola, presentata il 22  e 23 marzo, ha aperto al pubblico le sale della Barnes Foundation di Philadelphia che conserva la più grande collezione di dipinti di Pierre Auguste Renoir (1841-1919), con le sue 181 tele per la maggior parte appartenenti all’ultima fase artistica del maestro francese. Questi dipinti furono acquistati dal chimico e industriale farmaceutico Albert C. Barnes, estimatore di Renoir, che considerava l’arte un investimento per migliorare la comprensione della società. Si tratta di nudi di donna opulenti e seducenti, esaltazione di una carnalità voyeuristica, considerati dalla critica come l’esito di una fase decadente del maestro. Stanco della leggerezza con la quale l’impressionismo si accostava alla percezione della realtà, Renoir iniziò una nuova fase post impressionista, che riscopriva la pienezza classica della forma, ma che non può trovare paragone con i capolavori del primo periodo. Il film consente di visionare queste opere e di ascoltare i contributi dei più autorevoli critici d’arte del New York Time e dell’Washington Post che ricostruiscono, come in un saggio critico, l’ultima attività artistica di Renoir, poco conosciuta per l’assenza di questi dipinti dal circuito ufficiale delle mostre dedicate all’artista francese. Renoir era nato a Limoges, una cittadina nel cuore della Francia, ma si trasferì a Parigi con la sua famiglia dove frequentò l’Ecole des Beaux-Arts. Qui conobbe Claude Monet, Frèdèric Bazille e gli altri artisti con i quali condivise l’esperienza del dipingere en plein air a Fontainebleau. A questo primo periodo impressionista risalgono capolavori di pittura come “La colazione dei canottieri” (1881) e “Ballo al Moulin de la Galette (1876) (Philliphs Collection e Museè d’Orsay), impressioni di luce e colore sulla vita reale di rara bellezza compositiva. Le successive sperimentazioni pittoriche di Renoir sono quelle della riscoperta del classicismo, influenzate dal viaggio in Italia del 1881, durante il quale conobbe i grandi maestri della pittura del Rinascimento italiano. Ma dal 1890, Renoir portò un ulteriore svolta nella sua pittura, dissolvendo le forme attraverso il colore,  mediante l’uso di una pennellata leggera. Il film di Grabsky consente di conoscere attraverso le visione delle opere e la ricostruzione della vita del maestro, la prolifica carriera artistica di Renoir, lasciando che lo spettatore costruisca liberamente una riflessione critica nonché estetica sull’arte di uno tra i più grandi artisti della modernità.

Pubblicato da Antonella Colaninno

giovedì 17 marzo 2016

PEGGY GUGGENHEIM ART ADDICT. IL DOCUMENTARIO SULLA VITA DELLA GRANDE COLLEZIONISTA

di Antonella Colaninno

Peggy Guggenheim Art Addict è il documentario della regista Lisa Immordino Vreeland sulla vita della grande collezionista statunitense. La Vreeland costruisce il documentario attraverso materiale inedito: l’ultima intervista rilasciata da Peggy a Jacqueline B. Weld, autrice della biografia “Peggy.The Wayword Guggenheim”, con la voce della collezionista che racconta aneddoti ed episodi della sua vita privata e professionale. Il montaggio inserisce una sequenza di foto e filmati d’epoca e brevi episodi nei quali galleristi, critici e curatori di oggi affermano l’importanza storica di Peggy Guggenheim nel mondo dell’arte contemporanea:


“Peggy è stata il collegamento tra modernismo europeo e americano, tra surrealismo ed espressionismo astratto”, racconta Jeffry Ditch, mercante d’arte e curatore. “Io sono stata come una storica” affermava la stessa Peggy, consapevole di aver svolto un ruolo importante come ponte tra le avanguardie americane e quelle europee. Figura bohemien, Peggy è stata pioniera nell’emancipazione femminile nel suo desiderio di stare al passo con una società che riconosceva all’uomo libertà di scelta e di decisione. Fu infatti donna libera, mecenate e amante dei suoi artisti; svolse un ruolo importante alla vigilia del secondo conflitto mondiale, aiutandoli a fuggire dall’Europa per evitare le persecuzioni naziste ai pittori modernisti. Grazie ad un amico spedizioniere, portò in salvo in America anche le opere della sua collezione che il Louvre aveva rifiutato di conservare. Man Ray, Pablo Picasso, Jean Cocteau, Constantin Brancusi, Marcel Duchamp, sono solo alcuni tra gli artisti e intellettuali che Peggy frequentava e  supportava economicamente, come nel caso di Jackson Pollock, a cui pagava l’affitto di casa per arginare le sue tendenze autodistruttive, e lasciare che esprimesse serenamente la sua creatività. Fu lei a scoprirlo su segnalazione di Piet Mondrian e a credere per prima nel valore della sua arte: commissionò a Pollock il grande pannello per l’ingresso della sua casa di Venezia, considerato una carta da parati per la ripetizione di alcuni elementi decorativi del disegno. Alcuni di loro diventarono suoi compagni di vita (Max Ernst fu il suo secondo marito) e suoi mentori come Herbert Reed. John Holms, l’intellettuale inglese alcolizzato, scomparso a soli 36 anni, vittima di una banale operazione al polso, fu il grande amore della sua vita. Peggy ebbe un background familiare segnato da molti lutti: il padre Benjamin Guggenheim morì a bordo del Titanic, Pegeen, la figlia pittrice nata dal matrimonio con lo scrittore Laurence Veil, morì malata di depressione a causa di una overdose di farmaci nel 1967, a soli 42 anni, sua sorella Benita invece, morì di parto mentre i suoi nipoti caddero misteriosamente da un edificio. 
                                                                                Pegeen Veil Guggenheim
Ma ancor prima dei suoi artisti, “lei stessa fu la più grande creazione”, e Peggy era consapevole dell’importanza del suo ruolo nell’arte. Visse tra Parigi, Londra, New York e Venezia, dove ebbe la cittadinanza onoraria nel 1962. Pensavano di lei che fosse una pazza e dei suoi artisti che non avessero un futuro, ma il suo ruolo di collezionista e mecenate dell’arte è ormai consacrato alla storia dell’arte che non avrebbe avuto continuità senza il suo impegno. Peggy Guggenheim realizzò il sogno di creare un museo d’arte contemporanea a Venezia, acquistando all'asta Palazzo Venier dei Leoni dopo la guerra ad un prezzo concorrenziale. La sede sul Canal Grande, che fu all’epoca abitazione privata della collezionista, è oggi parte della Solomon R. Guggenheim Foundation. Peggy (1898-1979) è sepolta in un’urna nel giardino dell’abitazione dove sono sepolti anche i suoi 7 cani.


Pubblicato da Antonella Colaninno

domenica 13 marzo 2016

YANN KERLAU E I CACCIATORI D’ARTE. I COLLEZIONISTI DI IERI E DI OGGI


“Davanti ai potenti l’America è pronta tanto a infatuarsi quanto a drizzare la forca. Una semplice occhiata ai quotidiani americani sembrerebbe confermarcelo. Lo scandalo è la barriera che infrange le velleità degli avventurieri” Yann Kerlau

di Antonella Colaninno

Yann Kerlau, ex avvocato di New York e top manager di Gucci, è l’autore del volume intitolato “Cacciatori d’arte. I mercanti di ieri e di oggi” (Johan & Levi editore). Otto storie di uomini d’affari con la passione dell’arte e l’amore per il rischio che hanno scommesso su pittori “incompresi” e non ancora conosciuti, investendo somme ingenti di denaro. Visionari e intraprendenti, sono diventati collezionisti di opere d’arte e mecenati con il fiuto per i dollari, creatori di estetiche e veri rivoluzionari dell’arte. Yann Kerlau ha deciso di lasciare le aule dei tribunali per dedicarsi completamente alla scrittura e raccontare in un libro, che si legge con la leggerezza di un romanzo, le vite seducenti di questi cacciatori d’arte, dagli esordi al loro epilogo non sempre felice. Come per la vicenda del crollo di casa Knoedler dopo 150 anni di attività  “irreprensibile”, finita davanti ai giudici dello stato di New York per la vendita di un falso Pollock, “un tempio dell’arte dove musei e collezionisti compravano senza battere ciglio”. Si succedono nel racconto le storie di Ambroise Vollard, fuori classe delle vendite, di Daniel-Henry Kahnweiler, mercante di Picasso sin dai suoi inizi poco promettenti, della talent scout d’eccezione Peggy Guggenheim, del “cinico self-made man” Charles Saatchi, capace di “elevare l’artista a marchio di fabbrica”  o di Larry Gagosian che “conquista un impero multinazionale” con le sue nove gallerie sparse nel mondo, per finire con Paul Durand Ruel che apre le porte del mercato americano agli artisti che erano stati sino ad allora rifiutati. Tra excursus temporali e avvincenti digressioni aneddotiche, la narrazione prosegue generosa nella ricostruzione delle singole biografie. Curiosi ritratti di personaggi bizzarri, a metà tra opulenti Paperoni e sensibili scopritori di talenti, emergono nel racconto nella escalation di improbabili esordi e nel successo inevitabile di chi sa costruirsi un futuro brillante percorrendolo contro corrente. Non mancano i colpi di scena e i risvolti drammatici: Kahnweiler assisterà alla dispersione del suo patrimonio e della sua importante collezione che finirà all’asta. 

Ambroise Vollard, che tra gli artisti vide anche la gloria di Marc Chagall e Giuseppe De Nittis, rimase ucciso nella sua automobile sotto il peso di una scultura di Maillol durante un incidente. Kerlau ricorda come l’incredibile vicenda di Charles Saatchi sia stata segnata dalla fuga da Baghdad quando, ancora bambino, giunse a Londra con la sua famiglia. Di qui poi la nascita della sua prima agenzia pubblicitaria e il crac finanziario a seguito del fallimento dal quale riuscì a sollevarsi con successo. La storia di Peggy Guggenheim, incredibile collezionista e tenace rivale del potente zio Solomon, è quella di mecenate ma ancor prima di amante dei suoi giovani artisti, tra cui si ricordano Jackson Pollock e Alexander Calder, all’epoca ancora sconosciuti al grande pubblico. L’autore è ben attento a non creare un immaginario romanzato e per questo non nasconde gli aspetti negativi che contraddistinguono il mondo dell’arte, così snob e variegato, fatto anche di truffatori abili, che si insidiano tra arte e mercato, quanto di acquirenti irresponsabili, siano essi privati o esperti galleristi. L’autore dedica infatti il primo capitolo del libro al fallimento della storica galleria newyorchese Knoedler travolta da un giro di compravendita di falsi d’autore. Il caso Knoedler inizia nel 2007 per l’acquisto dell’opera di Jackson Pollock “Untitled 1950”, che il proprietario, il signor Lagrange, decide poi di vendere rivolgendosi a Sotheby’s e Christie’s. Gli esperti delle case d’asta sospettano che il dipinto sia un falso perché non risulta presente nel catalogo ragionato. Inoltre, da un’analisi dei pigmenti, viene rilevato che due tipi di gialli utilizzati non esistevano ancora all’epoca in cui Pollock aveva realizzato la sua opera. Nel libro di Kerlau fa da sfondo tutta la storia dell’arte dall’Ottocento ad oggi, dalla nascita delle avanguardie  alla trasformazione della modernità nella grande avventura della cultura contemporanea, perché raccontare il mercato significa anche raccontare l’arte e gli artisti che del mercato sono i grandi protagonisti inconsapevoli.

Charles Saatchi

Pubblicato da Antonella Colaninno

domenica 6 marzo 2016

ALBERTO BURRI E LA RIVOLUZIONE DELLA DIVERSITA' SOGNATA



di Antonella Colaninno

Con la mostra di Alberto Burri, il Guggenheim Museum di New York ha chiuso le celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista umbro (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995). Si è conclusa infatti lo scorso gennaio la mostra dal titolo “The Trauma of Painting” che ha portato nella grande mela uno dei maestri dell’arte del Novecento italiano. Il confronto con Lucio Fontana sembra inevitabile: dalle superfici bucate e tagliate che hanno aperto il dibattito su una nuova visione dello spazio, Burri ha invece sperimentato le superfici increspate che dalla tela hanno raggiunto la massima espansione nel contesto naturale del Grande Cretto di Gibellina, un progetto che sposa il paesaggio e recupera la memoria storica del luogo nella sua fisionomia di land art e di architettura di paesaggio. Non si può parlare di rivoluzione estetica nell’arte del Novecento senza considerare i diversi livelli di percezione dello spazio che i due artisti hanno sperimentato. Ricerca di equilibrio, innovazione e rispetto della forma, anche quando la materia si trasforma e si reinventa nelle operazioni più “trasgressive” dei sacchi cuciti e rattoppati, caratterizzano il lavoro artigianale di Alberto Burri, che non dimentica mai la tradizione classica dell’arte nel suo essere artista "demiurgo". Ma in fondo la classicità è presente in molti artisti informali, e classico è stato a suo modo anche Piero Manzoni, nell’ordine e nell’equilibrio delle composizioni e nel suo reinterpretare  la scultura attraverso i corpi viventi. Il senso della classicità e quindi della bellezza intesa come equilibrio formale e perfezione, è presente anche nelle poetiche superfici monocrome di Ettore Spalletti, suggestive evocazioni di una spazialità indefinita eppure comprensibile alla nostra sensibilità, così lontana e così  vicina nel tempo da essere perfettamente in sintonia sia con gli spazi moderni di un’architettura come il MAXXI, e sia  con le sale del cinquecentesco Palazzo Cini sul Canal Grande. Persino un artista come Jannis Kounellis ha una continuità intellettuale con la classicità, nel suo considerare la modernità un corpo capace di indossare su di sé il proprio passato: “la modernità è indossare questo passato.” “Fontana non era un modernista. I suoi tagli sono delle ferite sulla pelle. E’ Caravaggio che mette il dito di San Tommaso nella ferita del costato di Gesù.” “Queste ferite ci portano nel dramma di una figurazione, esprimono la volontà di ricongiungersi con una realtà”. Lo spazio di Burri non può certo considerarsi un luogo esclusivo dell’immaginazione e neppure la proiezione di un progetto concettuale come invece lo fu per Fontana. Questo lo dimostra il grande sudario bianco di cemento che dagli anni ’80 ricopre il centro della cittadina siciliana di Gibellina, distrutta poco più di dieci anni prima da un terremoto. 

Qui le crepe della tela diventano spazio reale, luogo tangibile dell’esperienza, una massa di superficie spaccata al suo interno, un percorso di cretti arso e “sofferto” che può essere percorso come un sentiero che conduce ad un passato immaginario ma realmente esistito, abitato dai suoi fantasmi. La retrospettiva americana è stata la seconda tappa nella grande mela per Alberto Burri, già celebrato nel 1977 con una personale al Guggenheim dal titolo “Alberto Burri: A Retrospective View 1948 – 1977”. A cura  di Emily Brown e Megan Fontanella, l’importante mostra al Guggenheim di New York ha ripercorso filologicamente l’evoluzione  stilistica dell’artista italiano: “dai Bianchi e dai Catrami del 1948, alle Muffe e ai Gobbi del 1950, ai Sacchi, alle prime Combustioni del 1954, ai Legni, le Plastiche e i Ferri.” Il video dell’artista Petra Noordkamp allestito in mostra, raccontava il grande Cretto di Gibellina nel suo essere città fantasma e sempre eterna. La classicità di Alberto Burri è nel suo passaggio rivoluzionario nella storia e nell’arte, perché, come afferma Kounellis ,è nei “no” la rivoluzione di una “diversità sognata”, nella differenza che apre il varco al nuovo per ripetersi nel tempo sempre sotto nuove spoglie, in un modo sempre diverso, autorevole e liberatorio,  di vedere e di proporre la propria condizione storica ed emotiva.

Pubblicato da Antonella Colaninno


giovedì 3 marzo 2016

LUCIO FONTANA E LO SPAZIO DELL’IMMAGINAZIONE



di Antonella Colaninno

Pittore, ceramista e scultore, Lucio Fontana (Rosario di Santa Fe', 1899 – Comabbio, Varese, 1968) ha dato un nuovo corso all'arte moderna recidendo con un taglio netto quanto si era prodotto sino ad allora nell'arte. “Io buco, passa l’infinito di lì, non c’è bisogno di dipingere…tutti hanno creduto che io volessi distruggere: ma non è vero, io ho costruito, non distrutto, è lì la cosa […]”. Il valore concettuale della sua idea di tagliare la tela è stato un gesto d’avanguardia, un’intuizione nella percezione dell’universo visto da una prospettiva estesa priva di limiti, che si può immaginare solo attraverso una dimensione mentale e creativa. “Non mi interessa lo spazio di cui parlate voi. La mia è una dimensione diversa”, un orizzonte personale, che ricerca nei buchi e nei tagli un concetto nuovo di spazio che supera l’idea stessa di spazialità e la sua entità fisica, per diventare puro gesto dell’immaginazione. Lo spazio di Fontana non è solo la proiezione di una possibile entità immaginativa, un vettore dinamico di materia, ma rappresenta  quell’istinto barocco di aprirsi verso l’esterno, con “la spettacolarità del gesto”. Il taglio ha in sé un fare progettuale perché vuole costruire un’idea su nuove realtà dell’immagine. Il suo lavoro ebbe agli inizi di carriera un riconoscimento inadeguato per la sua portata innovativa, eppure oggi Fontana è l’artista italiano più rappresentato nei musei di tutto il mondo. La galleria Farsettiarte racconta l’insuccesso di un’opera del maestro durante un’asta dove invece tutti i lotti furono venduti. Per “Concetto spaziale giallo” non ci fu “nessun interesse, solo un brusio ironico nella gremitissima sala e la beffarda offerta di una lira da parte di un professionista cittadino. Il banditore imbarazzato ritirò il quadro dopo aver tentato, senza riuscirvi, di spiegare chi era Fontana”.  Il mercato dell’arte ha riconosciuto in ritardo la genialità di questo artista, che solo negli ultimi dieci anni ha visto crescere le quotazioni sino a raggiungere la cifra importante di 30 milioni di dollari. “Il 2015 è stato l’anno che “ha sancito definitivamente il successo economico di Fontana. […] e nonostante la sua produzione abbondante non riusciamo a soddisfare la domanda dei collezionisti” ha dichiarato in un’intervista Mariolina Bassetti, presidente di Christie’s Italia, “nonostante la sua produzione sia così abbondante il mercato sembra non risentirne affatto perché il suo gesto è una ripetizione che nutre l’animo del collezionista senza stancarlo.” Un successo che i collezionisti hanno decretato sostenuti dal lavoro della Fondazione Lucio Fontana che organizza mostre dell’artista nei musei di tutto il mondo, e dall'interesse che le fiere internazionali hanno a lui riservato.  

L’opera completa di Fontana comprende anche i disegni o “opere su carta” degli anni Trenta realizzate su fogli di carta da lettera o da macchina da scrivere, ma anche su cartoncino e carta assorbente e su carta per il mercato, per i disegni realizzati “solo nell’ultima parte della sua attività”. Il mercato non ha riservato grande attenzione a queste opere che restano circoscritte all’’interesse dei singoli collezionisti, pur avendo lo stesso valore concettuale delle opere su tela in quanto rappresentano la genesi strutturale dell’idea progettuale. 

Le ceramiche di Fontana hanno ritrovato un interesse sul mercato in questi ultimi anni: Fontana iniziò il suo lavoro di artista proprio come ceramista, lavorando come assistente nell’atelier di suo padre in Argentina, mentre in Italia frequentò dal 1928 i corsi di Adolfo Wildt all’Accademia di Brera, realizzando le sue prime sculture nel laboratorio di Tullio Mazzotti ad Albisola.

Lucio Fontana per Ugo Mulas, 1963

Pubblicato da Antonella Colaninno


Enrico Crispolti è il maggior esperto al mondo dell’opera di Lucio Fontana. Conobbe l’artista cinquantottenne nel 1957, quando aveva solo 24 anni. Ha curato, in Italia e all’estero, a partire dal 1959, molte mostre antologiche. E’ autore delle tre edizioni del Catalogo ragionato del 1974, del 1986 e del 2006, delle sue sculture, dei dipinti e delle ambientazioni. E’ autore anche del catalogo ragionato generale della scultura e dell’oggettistica in ceramica. Di Luca Massimo Barbero è il Catalogo ragionato dell’opera su carta di Lucio Fontana, edito in tre tomi da Skira. 

mercoledì 2 marzo 2016

BLACK GRAFFITI: FRANCESCA ALINOVI E LE AVANGUARDIE ANNI ‘80


di Antonella Colaninno

“Neri come la pece, o caffè latte, ma sempre scuri, felini carichi di sex-appeal, i neri di New York, dopo aver conquistato il mondo della musica e della danza, stanno diventando le nuove stars dell’industria artistica. Prima i graffiti sui treni, poi i graffiti sulle strade: ora i loro graffiti su tela riverniciano a nuovo i muri delle gallerie d’arte e le copertine delle riviste più eleganti di New York”. Analfabeti “ma spontaneamente acculturati sul mitico linguaggio delle immagini e delle notizie teletrasmesse per impulsi elettronici, volevano semplicemente provare l’ebbrezza della fama e della gloria promessa dalla mitologia dei mass media. Così, non potendo far scorrere i loro messaggi lungo i tubi catodici, decisero di farli scorrere sui treni. […] Loro aspiravano alla bella vita consacrata dalla celebrità, invece diventarono celebri perché furono scambiati con i criminali della malavita”
Così scriveva Francesca Alinovi in “Black Graffiti”, uno dei suoi ultimi articoli pubblicato nel 1983 su Panorama Mese solo pochi giorni prima della sua scomparsa. Il 12 giugno 1983 Francesca Alinovi veniva uccisa con 47 coltellate nella sua abitazione di via del Riccio 7 a Bologna. L’efferato delitto oscurava tristemente la brillante carriera della giovane studiosa, destinata a diventare una stella nel panorama internazionale della critica d’arte. Con il suo “entusiasmo da pioniera dell’arte” è stata protagonista della storia delle avanguardie anni ’80, ma purtroppo la cronaca nera e l’assassinio hanno offuscato con un velo oscuro la memoria di questa teorica che è stata un ponte tra la New York dei graffiti e la New Wave italiana, una vera pioniera della cultura underground di quegli anni. In molti avevano aperto una scommessa sul futuro radioso di questa avvenente e intelligente studiosa che si affacciava sulla scena internazionale. La sua ricerca, sempre libera e spinta alla liberalizzazione del pensiero oltre il pregiudizio e la discriminazione, cercava di rilevare quanto la creatività fosse un campo mentale aperto, luogo di incontro di razze, culture e status sociale, connesso e disconnesso al tempo stesso, con la cultura bassa e con la comunicazione massmediatica. La creatività era per la studiosa uno spazio fluido che scorreva libero oltre le frontiere dell’arte. E’ questa la sensazione che si avverte quando si sfogliano le pagine che conservano l’attività intellettuale della giovane critica d’arte, una dimensione liquida, sospesa, che corre sui fili del tempo, che coglie l’attimo di una rivelazione estetica inesauribile che si fa perennemente viva.

Nata a Parma nel 1948, Francesca Alinovi si era laureata in lettere all’università di Bologna con Francesco Arcangeli con una tesi su Carlo Corsi e si era poi specializzata con Renato Barilli approfondendo lo studio di Piero Manzoni, Lucio Fontana e dello Spazialismo, diventando poi ricercatrice di ruolo presso il DAMS di Bologna e insegnante di fenomenologia degli stili. I suoi interessi erano indirizzati alla storia delle avanguardie e alle contaminazioni tra le varie arti: pittura, scultura, musica, video e teatro. Era una specie di talent scout del panorama artistico contemporaneo italiano. Ma dal mondo accademico bolognese aveva iniziato negli anni Ottanta a muoversi “nel sottobosco dei talenti” newyorkesi, conferendo al graffitismo urbano, nato solo da poco tempo, lo statuto di arte di frontiera, oltre a riconoscere il valore sociale di questa pratica artistica alternativa, svincolata dai circuiti ufficiali e dalle logiche di mercato. La nuova moda americana di usare bombolette spray era un mezzo di “disperata sopravvivenza culturale”, “un fenomeno selvaggio di vandalismo urbano” che dalle strade, dai muri, dai mezzi di trasporto, e dai tunnel sotterranei, finiva nel grande mercato dell’arte internazionale. Nei graffiti infatti c’è il desiderio di rivendicare la mancata affermazione sociale, essi rappresentano una vera e propria “gara di emancipazione del nuovo orgoglio razziale”. I neri lanciano in questo modo la loro sfida per emergere e distinguersi dal gruppo. La “crudele selezione nera” aveva incominciato la sua lotta per l’affermazione nella cultura. Il mondo dell’underground newyorkese era per Francesca una dimensione libera, rappresentava per lei una sorta di regressione allo stato primitivo. Gli artisti non erano acculturati e provenivano da situazioni di emarginazione; erano inoltre tutti molto giovani e avevano un’età compresa tra i 16 e i 25 anni. L’arte dei graffiti era in fondo un gesto performativo collegato all’Hip hop e alla street dance che usava la gestualità e il disegno per liberare quell’inconscio collettivo, teorizzato da Renato Barilli,  per proiettarsi nel futuro di un’arte di frontiera. La mancata affermazione sociale emerge nei graffiti, e dalle strade e dai muri conquista il pianeta come un’onda energetica. In Francesca Alinovi è frequente anche il rimando al mondo elettronico e alle nuove comunità del web come ponte di comunicazione e mezzo alternativo all’alfabetizzazione, per rivendicare il potere della conoscenza. Il graffitismo offriva così, un’occasione di sfida e di competizione per emergere dal gruppo ed imporsi attraverso il coraggio e la celebrità, e si presentava inoltre come un’occasione per comunicare nella società che da sempre aveva “escluso dai propri canali di informazione e comunicazione intere comunità nazionali, pur numerose e piene di voglia di esprimersi”. Gli unici artisti bianchi considerati degni di stima nel mondo sub urbano dei graffiti furono Kenny Scharf e Keith Haring, gli unici ad avere conosciuto il “periferico esistenziale” e ad aver condiviso con i neri l’avventura dell’underground  nei tunnel delle metropolitane, dove le avanguardie si incontravano dilatandosi all’orizzonte. Perché è nel cavalcare l’onda della new wave che si passa la frontiera dell’arte e si viene inghiottiti nel vortice della contemporaneità compulsiva che sprigiona energie.

Pubblicato da Antonella Colaninno