"La fotografia, negli anni '70, ha conosciuto un vero processo di esplosione in tutte le direzioni. Come per le donne, gli omosessuali e le minoranze etniche e razziali, si è verificato anche per la fotografia una specie di movimento di liberazione che l'ha affrancata dalla precedente condizione di soggezione nei confronti della pittura." Francesca Alinovi
di Antonella Colaninno
Francesca Alinovi estese le sue riflessioni anche in ambito fotografico. La fotografia. Illusione o rivelazione?, scritto insieme a Claudio Marra, è il titolo del saggio pubblicato nel 1981 dalla casa editrice Il Mulino di Bologna che ripercorre le fasi evolutive della storia della fotografia. La fotografia è un'arte che si traduce come illusione della realtà, nel suo essere
"uno strumento preciso e infallibile come una scienza, e insieme inesatto e falso come l'arte." Alinovi riprende il pensiero del critico letterario francese Roland Barthes il quale afferma che la fotografia
"o la si pensa come una pura trascrizione meccanica, esatta, del reale, come tutta la fotografia di reportage ed in certi casi quella di famiglia [...] o la si pensa come un sostituto della pittura ed è ciò che chiamiamo fotografia d'arte." Partendo proprio da queste riflessioni del Barthes, Alinovi scrive che la fotografia non può essere considerata arte come la pittura poichè manca della sua stessa libertà, non può lavorare su una tela o su un foglio bianco e deve fare i conti con il reale.
"[...] se da un lato la realtà fotografica è comunque un'illusione (l'immagine fotografica è sempre un'altra cosa rispetto all'oggetto fotografato), dall'altro si può dire che ogni illusione premeditata ad arte dal fotografo riceve, dalla fotografia, un attestato di verità. Di fronte all'immagine fotografica più improbabile e inattendibile noi ci ritroviamo come nella condizione del "sogno o son desto" tipico del dormiveglia notturno, o dell'evento stupefacente e miracoloso: lo accettiamo come frutto di una realtà superiore." La studiosa porta in esempio i ritratti fotografici ottocenteschi di Diderì, che non ricercavano certo la rassomiglianza quanto, piuttosto, l'imprrevedibilità della stessa.
"la fotografia, nata come strumento ideale per l'accertamento dell'identità, diventa subito occasione di fuga non solo dalla propria identità, ma dalla stessa realtà." "La foto nata come scienza, favorisce così il proliferare dell'illusione." E l'illusione è l'estensione della immaginazione il cui campo privilegiato è il fotomontaggio, usato dai primi fotografi per sistemare alcune imperfezioni di tipo tecnico. Nel 1813, sarà lo svedese Oscar Gustav Rejlander a brevettare l'invenzione del fotomontaggio. Rejlander lavorò con particolare attenzione sulla tecnica compositiva per dimostrare che la fotografia non è cosa semplice e, come la pittura, può elaborare temi complessi e allontanarsi dal realismo-naturalismo. La composizione fotografica dimostra così di non essere solo un fatto puramente meccanico, ma un lavoro che richiede inventiva e che usa
"gli stessi procedimenti mentali, lo stesso trattamento artistico e l'accurata elaborazione richiesti da un quadro dipinto."
La fotografia può essere il frutto di una costruzione scenografica studiata e realizzata con cura dei particolari che sfrutta l'uso di trucchi adeguati, come la creazione di sfondi architettonici e del blow up, attraverso i quali
"Rejlander ingrandisce i dettagli prescelti fino a far loro assumere le dimensioni volute. A questo punto, non gli resta che inserirli tra le figure mediante il fotomontaggio." [...] nelle opere di questi fotografi, come nei loro scritti", scrive Alinovi,
"si rintracciano di volta in volta riferimenti a Ruskin, ma anche a Sir Joshua Reynolds, il leggendario fondatore della Accademia Reale di Inghilterra, oppure a Burke, il celeberrimo teorico del Sublime, padre del pensiero romantico inglee, o a Cozens, il teorico del Pittoresco e padre del paesaggio atmosferico all'inglese." Il suo lavoro fotografico più famoso, - Il momento del trapassao - fu considerato offensivo per la morale comune dell'epoca, perchè
"anche la morte, come la nudità, era ammissibile solo quando veniva rappresentata in modi virtuali e illusionistici dell'arte (pittura o scultura), non con le rudi maniere realistiche della fotografia. Anche la morte diventava pornografia, esattamente come un corpo nudo, quando veniva privato dei veli trasfiguranti della censura artistica." Ancora una volta
"la foto veniva scambiata dall'opinione pubblica con la realtà [...]" e
"se Rejlander era stato licenzioso nell'esibire troppo crudamente Eros, Robinson lo diventerà per aver ostentato con troppa spregiudicatezza Thanatos." Alinovi si sofferma su alcune delle tipologie ricorrenti nella fotografia in età vittoriana come la fotografia d'evasione, associabile al gusto per l'esotismo, così di moda in questi anni. In questo filone, la nostra autrice ricorda gli scatti dello scrittore e matematico Lewis Carroll (1832), per il quale la fotografia sarà
"uno stimolo inesauribile all'invenzione di prodigi e di meraviglie." Carroll attribuiva alla macchina fotografica una sorta di "peccaminosità intrinseca" che, attraverso l'obiettivo, si caricava di uno sguardo seducente e perverso che il fotografo proiettava sul soggetto fotografato. Per questo, le sue bambine,
"anche quelle vestite, presentano sempre un'aura maliziosa, di precoce maturità di donne adulte, dallo sguardo spesso torbido e ambiguo."
"Davanti all'obiettivo di Carroll esse lasciavano trasparire un mondo occulto, segreto, forse proprio non del tutto innocente, normalmente ignorato e rimosso dal mondo adulto." Se Carroll fa della meraviglia la linea guida delle sue immagini fotografiche, Julia Margaret Cameron (1815) attinge alla poetica del sublime per dare voce alla sua fuga dalla realtà. Vicina dunque alla visione dei Preraffaeliti, la Cameron utilizza la sfuocatura come caratteristica principale delle sue immagini, per creare una dimensione spirituale molto simile al sogno.
Ognuno, a proprio modo, seguendo la propria poetica questi fotografi anticipano, attraverso l'illusionismo (Rejander e Robinson) e la foto d'evasione (Carroll e Cameron) quell'importante filone che andrà sotto il nome di esotismo fotografico. L'esotismo è
"il desiderio di uscire fuori dal mondo conosciuto", "fuori" dalla esperienza ordinaria, si potrebbe anche dire, "fuori" dal sè. Con grande spirito d'avventura questi fotografi viaggiatori esplorano terre lontane e immaginano l'Oriente come un
"grande sogno collettivo destinato a prender corpo nelle immagini fotografiche." Siamo negli anni dell'espansione colonialista dell'Occidente verso il Terzo Mondo, essi ricercano il sogno in quei luoghi intorno ai quali si è creato il mito della storia e della nascita della civiltà. L'esotismo "è una componente della cultura ottocentesca, l'atra faccia, immaginifica e favolosa, dello scientismo positivista. Non a caso, prima dei fotografi, sono alcuni avventurosi pittori ed incisori ad imbarcarsi alla volta di quelle mitiche terre", come il pittore Eugene Delacroix. Tra questi fotografi la studiosa ricorda l'inglese Francis Frith (1822), con le sue foto artistiche dell'antico Egitto; l'archeologo inglese John Green, con le sue
"tavole di paesaggi e scene archeologiche riprese sulle rive del Nilo" e l'archeologo e fotografo francese Auguste Salzmann (1824) con il suo reportage in Terra Santa. Pittori e fotografi erano sollecitati dalla East India Company a fare rilevamenti topografici sul territorio indiano per incentivare il commercio e controllare le vie di comunicazione. Sorsero infatti sul territorio stabilimenti fotografici commerciali, come la Bourne & Shepard, fondata nel 1862. Sulla scia dello spirito avventuroso di questo esotismo di genere si delineò il genere erotico, portato in fotografia dal barone austriaco von Stillfried (1839). Tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento alcuni fotografi, come Adolph de Meyer (1868) e Cecil Beaton (1904), lavorarono sulla citazione, spinti da un comune sentimento di nostalgia e di revivalismo.
"La rivolta anti moderna di questi fotografi è dettata innanzi tutto dal tentativo di superare le più odiose impasses del modernismo stesso", così come, in tempi più recenti,
"la fotografia, in quanto strumento moderno per eccellenza, [...] diventa ideale espressione della sensibilità post moderna." Il barone Wilhelm von Gloeden (1856), considerato dalla studiosa tra le personalità artistiche più interessanti, sviluppò in fotografia quel gusto intermedio di
"foto illusionistica, d'evasione, esotica e, ora, post moderna", un
"nobile decaduto, nostalgico, elegante", "eccentrico dandy amante di un bello votato fatalmente alla massificazione." Fotografo eclettico, von Gloeden è ricordato per i suoi
"efebi travestiti, fauni, satiri, contadinelle, attuali nell'ermetismo della loro androginia, nella flessibilità del loro trasformismo, nella dissociazione schizoide della loro identità. [...] dominati da una sessualità espansa e polimorfa" che
"anticipa curiosamente comportamenti di massa di oggi."
Il barone Adolph de Meyer è considerato da Alinovi
"il più legittimo erede dell'estetica raffinata e nostalgica del barone von Gloeden." "De Meyer, anzichè specializzarsi in bambine come Carroll, in vecchioni dalla lunga barba bianca come la Cameron, o in giovani efebi come von Gloeden, preferì buttarsi sulle più celebri bellezze dell'epoca, attrici di successo e nobildonne, mannequins e avventurose, iniziando ovviamente dalla prima bellezza che si trovava ad avere tra le mani: la moglie Olga." Ma de Meyer sarà ricordato soprattutto per le sue nature morte pubblicate su Camera Work e rese celebri per essere studi di luce realizzati usando la sfuocatura come espediente tecnico.
Cecil Beaton è considerato, invece, fotografo d'avanguardia, incline piuttosto alla nostalgia che all'avveniristico futuro, colui che riesce a formulare nell'evocazione del passato
"soluzioni nuove per il presente", rendendo attuali stili e forme d'epoca.
"Il mondo di Beaton è veramente il mondo abnorme e dilaatato dell'infanzia: è forse questo il vero mondo di Alice", un mondo che attinge dal teatro proprio in "quella ibrida mescolanza di realtà e artificio." Alinovi conclude ricordando il lavoro del surrealista britannico Angus Mc Bean (1904) e quello sullo spiritismo di Clarence John Laughlin (1905), con il suo gusto "squisitamente narrativo" per la fotografia. Ad epilogo del suo saggio sulla fotografia, Francesca Alinovi dedica l'ultimo capitolo a quell'aspetto della fotografia che definisce la "realtà dell'illusione", perchè "nata come trascrizione del reale." Molto significativo in merito è il libro di Duane Michals (1932) dal titolo Real Dreams, editato nel 1976. "Reali, nella fotografia, sono piuttosto i sogni, a cui la foto da forma visibile." Alcune foto di Michals
"trattano l'inquietudine strana legata alla vita segreta degli oggetti."
"Trovare un guanto è trovare il frammento di una identità dispersa, la sua spoglia insepolta. Un uomo infila un guanto, e quell'atto è analogo alla penetrazione fallica in un corpo, a una lunga avventura erotica." La concettualità della fotografia si estende a una vera e propria architettura di scena con il lavoro di Urs Luthi e Luigi Ontani che progettano e organizzano
"la regia nei minimi dettagli diventando per di più il soggetto fotografato." Ciò che attrae lo svizzero Urs Luthi
"è la possibilità di amplificare e moltiplicare, per mezzo della fotografia, la propria identità", anche se il reale interesse del fotografo sarà indirizzato a quegli aspetti, così attuali in quegli anni, del trasformismo e della doppiezza sessuale.
Attraverso il gioco del travestimento e dell'ambiguità, Luthi esprime il ruolo ambivaalente della fotografia, quello di stare nel mezzo tra la realtà e l'illusione.
"Il gigolò Luthi non è mai spensieratamente gay, ma un individuo ambiguo e misterioso, apertamente perverso. E poi è sempre pronto a sfuggire a ogni tentativo di definizione, a sgusciare dalle mani con la sua identità fluida." "La malattia e la perversione sessuale, tuttavia, che ha fatto la fortuna dell'artista, non tarda a riapparire sebbene sotto rinnovate spoglie." "Mentre Luthi comincia a imbellettarsi e a travestirsi con abiti attillati femminili, Lou Reed si appresta a incidere, nel 1972, Transformer, e David Bowie si presenta in scena con gli occhi bistrati e in tute di lamè." In parallelo alle ricerche sull'identità, sempre in bilico di Luthi, Luigi Ontani, tra profano e kitsch, vagheggia l'affermazione di una propria mitologia personale.
Alle ultime battute del suo saggio, Alinovi cita il lavoro di MacAdams, con la sua Narrative Art e la sua idea di
"fotografia come mistero." Quello di Gordon Matta Clarck, con le immagini di case maledette, di ruderi misteriosi che ritrae come spettri fantasmi, e quello di William Wegman, con la sua dog art, che predilige fotografie dai soggetti ironici in cui il protagonista è un grosso cane alano da lui chiamato Man Ray, il doppio istintuale e animalesco, l'alter ego dell'artista. Infine, Jimmy De Sana e Robert Mapplethorpe rappresentano i protagonisti dei futuri e rampanti anni '80.
"Le loro foto trasudano di violenza metropolitana e insieme ne mettono in scena la parodia, con l'esibizione vistosa dei grotteschi armamentari sado- masochisti di repertorio.
" Jimmy De Sana ama fotografare corpi avvolti da bende o arti legati da spaghi, tra bondage e vere torture, deviazioni sessuali e fantasie malate.
"Le persone diventano equivalenti degli oggetti: tutti sono dolcemente violentati dall'obiettivo del sadico fotografo." Come per le donne, gli omosessuali e le minoranze etniche, anche la fotografia degli anni '70 ha vissuto una specie di movimento di liberazione che l'ha affrancata dalla precedente condizione di soggezione nei confronti della pittura. Del resto, la fotografia negli anni '70 ha conosciuto un vero processo di espansione in tutte le direzioni, privilegiando soprattutto i temi sessuali legati alle follie più visionarie e perverse riguardo ad un erotismo "polimorfo e convulso."
Pubblicato da Antonella Colaninno
IN FOTO: Rejlander, "The ways of life"; Carroll, "Bambine"; Cameron, Von Gloeden, "Ritratto di ragazzo siciliano con fiori della passione sul capo"; de Meyer, "Water lilies", "Roses in Vase" (nature morte); Michals; Luthi, "Selfportrait", "Performance process"; Ontani; Mapplethorpe, "Milton Moore", "Robert Mapplethorpe e Creland New York City, 1971"; De Sana, "101 Nudes"