Nudo di donna EGON SCHIELE















lunedì 22 dicembre 2014

LA FOTOGRAFIA: ILLUSIONE O RIVELAZIONE? CLAUDIO MARRA E LA FOTOGRAFIA COME RIVELAZIONE






Storicamente la fotografia ha avuto i suoi movimenti di rottura col passato e ne sono conseguite conquiste di linguaggio in alcuni casi grandissime, nessuno ha però in se stesso preso il nome di avanguardia, come avanguardia fotografica è la stessa che spezza la storia della espressione in un prima e in un dopo senza reversione possibile. E’ questa la base di giudizio di tutte le avanguardie fotografiche. R. Chini,Il linguaggio fotografico, Torino, 1968

di Antonella Colaninno

Del saggio “La fotografia: illusione o rivelazione?” è stata esposta all’attenzione dei lettori la riflessione critica di Francesca Alinovi, che rappresenta la prima parte di questo lavoro scritto a quattro mani. L’analisi di Alinovi si è soffermata su quegli aspetti della fotografia legati alla dimensione del sogno e dell’evasione, da se stessi e dal mondo, alla ricerca di quella illusione che,  attraverso l’artificio, porta la fotografia ad essere nel mezzo tra scienza e fantasia. La seconda parte del saggio critico svolta da Claudio Marra intende, invece, affermare l’idea della fotografia come pura rivelazione. La “rivelazione” è quella “pratica che si rivolge alle cose per indirizzarle alla nostra attenzione”. L’identità della fotografia, spiega Claudio Marra, è un fatto culturale e non puramente meccanico del mezzo fotografico. Il nostro studioso pone in relazione la fotografia e la rivelazione con il cinema, la filosofia, la letteratura e la psicanalisi. In ambito letterario la scrittura di Marcel Proust mostra “una continua tensione al disvelamento e alla rivelazione delle cose”; il suo occhio si trasforma “in sguardo disvelatore capace di frantumare, o comunque portare ad evidenza, i vari abiti nei quali, di volta in volta, le cose ci appaiono”. La letteratura, si pensi a Pirandello ad esempio, allo stesso modo della macchina fotografica, “mette a nudo fatti e persone, li strania rivelandone la goffaggine, rende gli uomini consapevoli della finzione dietro la quale, normalmente, si celano”. Negli studi sulla psicanalisi è Freud in persona ad affermare nei suoi scritti che “la fotografia, o meglio, la pratica del fotografare, è qualcosa di molto vicino, per modello di funzionamento, ai meccanismi che regolano la nostra vita psichica”, perché l’oggetto si rivela e diventa parte del nostro mondo. Anche il cinema diventa uno strumento “per prolungare questo incontro rivelativo” col mondo, e la filosofia come il cinema, contribuisce a questo percorso di conoscenza, “perché riflessione e lavoro tecnico procedono nello stesso senso”. Sarà il Novecento a correre “sulla strada della rivelazione” e se l’Ottocento “presenta interessanti casi di poetiche della rivelazione”, questi possono  considerarsi solo casi isolati. Claudio Marra, nel suo saggio, considera Alfred Stieglitz l’interprete “del senso di un’epoca, di tutta una visione del mondo”, e per questo la storiografia fotografica è d’accordo nel considerarlo “il padre della fotografia moderna”. L'istantaneità è quella “pratica diretta verso le cose, come rifiuto della finzione, come volontà di relazionarsi al mondo” che “si presenta non tanto come specifico fotografico, ma piuttosto come specifico culturale che Stieglitz prontamente intuisce e fa suo”. L’atto del fotografare rappresenta “l’autoaffermazione del soggetto nei confronti del del mondo” mentre la tecnologia ha il potere di svelare la verità e di rivendicare la fisicità delle cose.                                                                                                                         

Per Stieglitz la rivelazione è un fatto estetico, fatto di relazioni, equilibrio e conoscenza, che implica, necessariamente, la necessità di individuare e circoscrivere le cose stesse, recuperandole da quel caos di rapporti che caratterizza solitamente il mondo”. Se Stieglitz lavora sull’isolamento e sulla istantaneità, Lewis Hine e August Sander preferiscono rivolgersi ad un processo di schedatura della realtà. Una  poetica che rappresenta, tutto sommato, un modo per filtrare la realtà, per conoscerla. che acquisirà dei risvolti antropologici nella fotografia di ambito criminale.
In Sander tale poetica raggiunge, inconsapevolmente, un valore sociale nella pura “manifestazione di archetipi culturali”, non a caso “Sander, scrive Marra, fotografava per stereotipi, annullando completamente il dato psicologico individuale”.
Nella fotografia di Atget la rivelazione si manifesta verso quegli aspetti che  il nostro occhio considera di per sé apparentemente inutili. Ciò che ci appare insignificante prende ad un tratto rilevanza, e ci appare  nella “folgorazione dell’istante” come una magica epifania. Atget rappresenta quel “filone della rivelazione […] che trova nella fenomenologia uno dei suoi punti di maggiore forza”. Nelle sue foto manca l’elemento umano e “le cose vi dominano solitarie ed assolute” non prive di quell’elemento psicologico che si manifesta nella loro rivelazione. Le fotografie di Atget furono punto di osservazione per surrealisti e dadaisti che lavorarono sul  valore del nonsense dell’oggetto,  banalizzandolo e decontestualizzandolo.
Anche per Freud, scrive Marra, “l’inutile, il secondario, viene ampiamente riscattato come strumento per accedere all’inconscio e alla sua articolazione”. Il dinamismo e la velocità dei tempi moderni così cari al Futurismo, trovarono un’eco nel fotodinamismo fotografico di Anton Giulio Bragaglia. “In Bragaglia c’è infatti da un lato, l’intenzione di condurre un’indagine rigorosa sul movimento dei corpi e sugli effetti che ne derivano, e dall’altra, […] quella di cogliere lo “spirito della realtà viva” così da “rendere ciò che superficialmente non si vede””. Un recupero, quindi, della spiritualità attraverso la “smaterializzazione dei corpi” che cerca di “giungere all’essenza e allo spirito delle cose”, oltre a  ricercare un punto di equilibrio con gli aspetti strettamente scientifici del mezzo fotografico. 
Diversamente accade per la poetica di Man Ray. La pittura è considerata un fatto intimo e la fotografia un fatto pubblico. In Man Ray ciò che conta davvero non è il mezzo fotografico, ma “l’idea che guida il lavoro dell’artista”, per cui “l’idea che viene stimolata dall’immagine prevale nettamente su quello che è il semplice dato oggettuale”. In Man Ray “si manifesta apertamente l’uso concettuale della fotografia” “il gesto fotografico non avanza infatti nessuna pretesa circa un’eventuale autonomia formale dell’immagine, ma si dichiara subito, e apertamente, gesto affettivo e di conservazione”. I suoi Rayographs  sono paragonati alla scrittura automatica dei surrealisti “luogo della casualità e pratica dell’inconscio per eccellenza”.
Con Moholy-Nagy “profeta del post modernismo” si assiste invece, al recupero del primato della tecnologia. Nella sua rivoluzione estetica,  che affida alla vista il primato della sensorialità, “le macchine hanno preso il posto dello spiritualismo trascendentale”, perché “la tecnologia ha un’anima”, “è lo spirito che anima la tecnologia” . E’ possibile “ rendere visibile, attraverso la macchina fotografica, cose che l’occhio umano non è in grado di afferrare o di percepire” e “la macchina fotografica può perfezionare o integrare il nostro strumento ottico: l’occhio”. I fotomontaggi di John Heartfield sono veri lavori pittorici legati all’idea di movimento. Il  valore compositivo è costruito sulla scomposizione e ricostruzione dell’immagine che porta 
 la fotografia ad essere un’identità labile che oscilla tra finzione e rivelazione. Allo stesso modo possiamo considerare gli specchi di Florence Henri che giocano sul senso dello sdoppiamento e del corrispettivo opposto del doppio. “Il piano e la profondità si spezzano dando vita ad arditissime combinazioni di angoli, gli oggetti riflessi non appaiono sempre nitidi e precisi ma spesso acquistano una patina di suggestione e di mistero […]”. “Lo specchio, scrive Claudio Marra, è una sorta di macchina fotografica imperfetta, che non sa trattenere le immagini.” 
In un interessante capitolo sul realismo, l'autore riflette sul valore storico dell’idea di realismo che non può essere considerato in modo unilaterale ma solo come concetto relativo che necessita di essere visto ed interpretato alla luce del proprio contesto storico di riferimento. Per questa ragione, anche il fotodinamismo di Bragaglia è da considerarsi una forma di realismo, alla luce del fatto che i futuristi consideravano il movimento come una realtà o, "ancora più drasticamente, come l’essenza della realtà”. Marra parla delle due strade del realismo: l’una coglie “il momento decisivo”, “l’attimo fuggente da bloccare, in lotta contro l’inesorabilità del tempo; e l’altra, quella del così detto “tempo lungo”, “dell’eternità congelata” e prolungata all’infinito. Nell’ambito di queste categorie si inserisce la poetica di di Erich Salomon che “eleva il fatto normale-banale a fatto degno di considerazione.”
Per commentare la fotografia di Brassai, Claudio Marra ricorre al pensiero di Marshall McLuhan, alla sua “immagine del mondo dell’era fotografica come di un bordello senza muri”, “che non custodisce più gelosamente i propri vizi, ma invece li trasforma in oggetti da vetrina, posti affettuosamente a disposizione di tutti”.  Sia le immagini della Parigi notturna che i Graffiti incisi sui muri della città fotografati dal nostro artista, “possono essere ricondotti  ad un’idea di rivelazione e ”fanno parte “di un’indagine rivelativa che affonda, anche se per itinerari differenti, su un unico oggetto, la città intesa come groviglio e deposito di esperienze, come accumulo di indizi da ricercare e svelare”. 
In bilico tra istantaneità e congelamento, Brassai afferma che “la realtà spinta all’estremo fa capo all’irrealtà” e che “andare dritti alle cose significa accertarne la magia”. Scrive ancora Marra: “se per Stieglitz, la fotografia rappresenta il mezzo per riscattare poeticamente la bassezza e la volgarità delle cose, dall’altro, per Brassai, c’è invece un vero e proprio compiacimento nell’affondare lo sguardo in ciò che di più sordido la città offre durante la notte”. “I veri nottambuli vivono la notte non per necessità ma per gusto, per tendenza innata. Appartengono al mondo del piacere, dell’amore, del vizio, del crimine, della droga…io avevo fretta di entrare in quest’altro mondo ai margini del nostro”. La fotografia per Brassai diventa la voce di una coscienza collettiva che ci proietta “direttamente in mezzo alle cose”. Per Henri Cartier-Bresson l’istantaneità rappresenta, invece, l’opportunità per entrare in relazione col mondo. La scelta, condivisa con la fondazione dell’agenzia Magnum, di acquisire la proprietà dei propri negativi diventa “metafora del passaggio dall’idea moderna di possesso della cosa a quella post moderna di controllo sull’informazione e sulla circolazione del prodotto”, in anni in cui l’informazione giornalistica, documentata dal reportage giornalistico, lascia il posto all’informazione televisiva che porterà, come conseguenza, alla chiusura di molte testate tra cui la rivista Life. 
Sia per Ansel Adams che per Diane Arbus la fotografia rappresenta, inoltre, un importante strumento di apertura al mondo esterno, un modo “per tornare a sentire la vita, per immergersi in essa” accettando il caos e la sua “violazione della norma”. I ritratti della Arbus sono i “nostri mostri quotidiani”, nani e soggetti mongoloidi sono i mostri “naturali” a cui si aggiungono i  mostri “culturali” per i modi diversamente normali di vestirsi e di comportarsi. Questi mostri sono “persone che avendo accantonato la paura e l’angoscia per qualcosa di traumatico che da un giorno all’altro potrebbe accadere, possono permettersi di guardare la vita con distacco”. Rivelazione per la Arbus significa “infrangere il muro delle apparenze e tentare di avvicinarsi all’essenza della realtà”
L’ultimo capitolo del saggio di Marra si interroga sul cammino della fotografia verso un processo di normalizzazione della propria ricerca che, partendo dagli inizi del Novecento, si conclude negli anni sessanta e settanta con un approccio di tipo estetico nell’acquisizione dell’immagine e della sua rivelazione. Per Marra la fotografia ha influenzato avanguardie artistiche come la Pop Art che attinse dalla fotografia la frontalità dell’oggetto e la ripetitività di rappresentazione, oltre alla poetica dell’isolamento e dell’ingrandimento degli oggetti che si fanno, in questo modo, rivelativi del proprio straniamento. L’immagine, infatti, acquisisce valore in sé ma perde di identità, acquista un valore oggettuale nella ripetizione di se stessa. Le più recenti conquiste della fotografia si proiettano sul prolungamento della sensorialità e sulla dilatazione mentale, come il caso di Patella che si propone non di rappresentare l’inconscio quanto piuttosto di “proiettarvisi dentro”. Dalla sfera del concettuale la fotografia si introduce nel campo della Body Art, entra in relazione con il nostro corpo, e rivolge il proprio sguardo meccanico verso la persona, cercando di affermare la propria presenza nel mondo. La fotografia giunge ad immolare la banalità e l’apparente inutilità della gestualità e “il riscatto della banalità, del quotidiano, dell’inutile, raggiunge il massimo dell’effetto con le ricerche della Narrative Art”  perché rivelazione significa anche saper “vedere, con occhi diversi, particolari insignificanti, tanto da estrarre conseguenze sorprendenti da minime tracce”. Un po’ come accadde nel lavoro di Franco Vaccari presentato alla Biennale del ’72 dal titolo “Lasciate una traccia del vostro passaggio” in cui i soggetti delle fototessera lasciano trasparire nell'istantanea un’immagine di sé diversa rispetto a quella tradizionale. Vaccari ha così realizzato la sua “poetica della traccia”, “una fotografia che è azione, che vale nel suo svolgersi” che supera l’idea stessa di staticità dell’immagine. Accanto alla nozione di “tempo reale” scrive Marra, “c’è, per esempio, da segnalare quella di “inconscio tecnologico”, nozione tipicamente mcluhaniana che Vaccari, con buon tempismo, sa cogliere in tutte le sue conseguenze”. 

Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Claudio Marra; Fotografia; illusione o rivelazione? di Alinovi-Marra; A.Stieglitz, “Ritratto di Georgia O’Keeffe”, 1919; Lewis Hine, “Cigarmakers, 1909; August Sander; Atget, “Boulevard de Strasbourg, Corsets”, Paris, 1912; Anton Giulio Bragaglia, “Type writer”, 1911; Man Ray, “Lee Miller”; John Heartfield; Florence Henri; Erich Salomon; Brassai, “Chaze-suzy”, 1932;H,Cartier Bresson, “Julien Gracq”, France, 1984; Diane Arbus; Franco Vaccari.


CLAUDIO MARRA
Laureato in Estetica nel 1976 con una tesi a titolo "Teoria e pratica della fotografia nelle avanguardie storiche". Dal 1983 al 1999 ha insegnato Fotografia nelle Accademie di Belle Arti, a Ravenna, Firenze e Bologna. Dal 1997 al 2000 è stato Professore a Contratto di Storia della fotografia presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Bologna, dove, dall'A.A. 2001/02, è Professore Associato confermato. Insegna anche presso la Scuola di Specializzazione in Beni Storici Artistici della stessa Università.
La sua attenzione storico-teorica è in particolare rivolta al problema della collocazione della fotografia in una più organica prospettiva di estetica generale, nonché ai rapporti che intercorrono tra ricerca fotografica e arti visive.
Oltre all'attività di ricerca svolge un'ampia attività critica rivolta sia al versante storico sia a quello di una più stretta contemporaneità, come testimoniano le molte collaborazioni con il Mambo (Museo Arte Moderna di Bologna), con altre importanti istituzioni pubbliche e con varie gallerie private.
Dal 2001 al 2006 è stato docente nel Master per Curatori di Arte Contemporanea organizzato dal Macro (Museo di Arte Contemporanea di Roma) e dalla Facoltà di Architettura di Valle Giulia. Nel 2007 è stato docente nel corso per curatori di archivi fotografici organizzato dalla Fondazione Zeri dell'Università di Bologna. E' stato consulente I.R.R.S.A.E. dell'Emilia-Romagna per il piano di aggiornamento Docenti per le Arti Visive.

domenica 9 novembre 2014

GIOVANNI SEGANTINI RITORNO A MILANO



 “Il vero artista è colui che rivela la natura, facendo dell’intuizione estetica un mezzo di conoscenza filosofica del mondo”. Giovanni Segantini

di Antonella Colaninno

Una vita breve ma certamente intensa quella di Giovanni Segantini (1858 – 1899), trascorsa nelle valli tra l’Italia e la Svizzera, coronata dal successo e dalla fama ma anche dalla solitudine. “[…] artista tra i più noti e affermati, ammirato all’estero nei circoli progressisti è uno dei protagonisti della sprovincializzazione della pittura italiana, dopo decenni di marginalizzazione rispetto al contesto europeo”. Segantini fu da molti definito “il pittore delle montagne”, ma la sua pittura, che ricorre a molte citazioni desunte dal Simbolismo e dalla Scapigliatura, va ben oltre questa definizione banalmente riduttiva . C’è in Segantini un’idea filosofica della pittura, permeata da una religiosità che nulla ha di trascendente, e che si fonda sul pensiero immanente di un misticismo che scaturisce dalla natura. La natura si fa partecipe dei sentimenti umani che si accordano alla luce e al buio, e nell’armonia del silenzio e della contemplazione le montagne assecondano la ricerca di una dimensione ascetica. Il sentimento della nostalgia si tinge delle tinte meste e oscure dei fondali blu e del marrone della terra umida e selvaggia, allo stesso modo della gioia che si riflette nella luminosità giocosa dei verdi brillanti dei pascoli e dei bianchi delle cime innevate. Dopo un’infanzia povera e priva di affetti trascorsa nella città di Milano, Segantini vivrà nel tempo il riscatto del benessere e della gloria del periodo di Maloja, un piccolo centro di poche case ed alberghi situato a 1800 mt nella valle dell’Engandina. Il 1879 segnerà la svolta decisiva nella vita artistica del pittore che incomincia un sodalizio professionale con il critico e gallerista Vittore Grubicy De Dragon, scopritore tra gli altri, degli Scapigliati  Tranquillo Cremona e Daniele Ranzoni, e degli artisti divisionisti Gaetano Previati, Angelo Morbelli ed Emilio Longoni, caro amico dI Segantini insieme a Carlo Bugatti, pregiato artigiano di mobili nonché padre del futuro fondatore della omonima e prestigiosa casa automobilistica. La mostra milanese dedicata all’artista, in corso a Palazzo Reale ,ripercorre i temi cari alla pittura di Segantini: la famiglia, la natura, il lavoro nei campi, e la maternità, ed intende ricordare attraverso quelle opere dedicate ai Navigli, gli anni difficili trascorsi dall’artista a Milano, segnati da un’infanzia priva di affetti e di agiatezza. Segantini è stato un importante esponente del Divisionismo italiano contemporaneo al Pointillisme francese. I suoi personaggi, pur nella quotidianità delle loro azioni, hanno sempre un’aura ideale, in sintonia con la semplicità della vita e con una visione spirituale ed universale del paesaggio. Segantini non realizzerà mai opere di intento sociale, interessato a rilevare esclusivamente le “armonie alpine”, una pittura meditata che supera la mimesis della natura e riscopre le sfumature della condizione umana. Per Segantini quella dell’artista è una missione che va oltre il puro valore estetico. Nel 1895, nel testo intitolato “I neri, i bianchi, ed i grigi”, Segantini divide gli artisti in tre categorie che prendono il nome dai rispettivi colori. Il nero è colui che si ritiene un artista ma che in realtà è interessato solo alla vendita e vuole assecondare i gusti di un pubblico per nulla educato all’arte. L’artista parlerà di questa scelta come una vera e propria “scrocconeria, perché si fa pagare l’opera sua come lavoro d’arte intellettuale”. I grigi sono invece, quegli artisti mediocri apprezzati dal “critico provinciale”; mentre infine i bianchi sono gli artisti “spiritualmente aristocratici”, ai quali il pittore sente di appartenere, che hanno “un ideale infinito da raggiungere”. “coll’elevazione dello spirito creatore l’opera prenderà un supervalore materiale, civile e morale. Materiale perché l’opera estetica viene sempre conservata; civile perché serve di ammaestramento; morale perché ingentilisce e innalza lo spirito”. “Il valore d’un’anima elevata non è soltanto estetico, ma è per l’umanità un valore materiale incalcolabile”.  Il percorso espositivo della mostra milanese si snoda per sezioni tematiche relative ai temi cari all’artista. Tra le opere più famose ritroviamo nelle sale di Palazzo Reale l’ ”Ave Maria a Trasbordo” (1886); qui l’enfasi della luce induce alla calma e alla meditazione assecondate dal ritmo circolare delle pennellate che disegnano cielo e acqua, tagliate da un lembo di terra all’orizzonte.

“La mia famiglia” (1882) è un’opera in cui è rilevante l’influenza di Tranquillo Cremona. Una composizione dagli spazi confusi e indefiniti in cui il vortice di colore confonde la determinatezza degli spazi di scena comunicando intimità e calore umano. 

In “Costume grigionese” (1887) l’artista ritrae la sua domestica Baba in costume grigionese tipico degli abitanti di Savognino, un villaggio dei Grigioni dove Segantini viveva da un anno. Un’immagine dal taglio fotografico che seduce per la grazia della figura in primo piano sullo sfondo. L’acqua che sgorga dalle canne rappresenta un virtuosismo compositivo di grande eleganza ed effetto scenico. 

Il “Ritratto della signora Torelli” (1885-1886?), moglie dell’allora direttore del Corriere della Sera Eugenio Torelli Viollier,  è un’insolita rappresentazione di un ritratto femminile. L’incedere della donna in abito oscuro è illuminato dal bianco parasole con le frange. Lo sguardo obliquo del soggetto rispetto a chi osserva il dipinto, denota un elemento di elegante distacco dal paesaggio urbano sullo sfondo. 

Nella quotidianità della scena di apparente semplicità dipinta nell’opera “Sul balcone”(1892) si costruisce un raffinato impianto compositivo che si focalizza sull’incrocio di diagonali della tettoia che si proiettano nel cielo luminoso come un’ombra che delimita lo spazio tra i tetti delle case da cui svetta il campanile. 

“L’albero della vita” (1894) è una visione originale del tema tradizionale della Madonna con bambino desunta dal linguaggio simbolista. L’albero della vita avvolge la maternità come in un’apparizione, delimitandola da una cornice che attesta un gusto tutto europeo, per la decorazione e le arti applicate.

 Infine, “Pascoli di primavera” (1896) è l’interpretazione del tema classico della primavera come momento di rinascita. La mucca al pascolo con il suo vitello si pone in armoniosa correlazione con la natura rigogliosa illuminata da un sole tiepido, mentre l’aria piatta avvolge ogni elemento.


Pubblicato da Antonella Colaninno

Mostra visitata il 10 ottobre

In foto: Giovanni Segantini; Ave Maria a trasbordo; La mia famiglia; Costume grigionese; Ritratto della signora Torelli; Sul balcone; L’albero della vita; Pascoli di primavera; Giovanni Segantini.

mercoledì 24 settembre 2014

DADA ANTI-ARTE E POST-ARTE DI FRANCESCA ALINOVI. L’ARTE CONTEMPORANEA E’ GIA’ TUTTA NEL DADAISMO.




“L’idea del libro mi è venuta pensando a Dada come al fenomeno capostipite della sensibilità della nostra epoca. Una sensibilità che ha finito per proiettare l’arte nelle cose comuni e per banalizzare, e rendere comune a sua volta, l’arte. Oggi è molto più interessante guardare le vetrine, nelle strade, entrare in un cinema o andare a sentire un concerto rock che visitare un museo o partecipare alla inaugurazione di una mostra in una galleria d’arte. E questo lo aveva capito per primo Dada, che aveva decretato appunto la morte dell’arte. Eppure l’arte non era morta, e anche questo lo aveva capito molto bene Dada, che l’arte l’aveva fatta, e ne aveva fatta tanta. Soltanto si era trasformata, e in modo tale da diventare quasi irriconoscibile, tant’è vero che, in certi casi, bisognava scriverci sopra un cartellino, -questa è arte-, per avvertire le persone distratte”. FRANCESCA ALINOVI

di Antonella Colaninno

La problematica Dada è “ambigua, sfuggente e sostanzialmente apolitica.”  
Dada è la rivoluzione di un progetto di massa, di una società espansa..

Il Dadaismo, accanto al Surrealismo, è considerato storicamente un momento di rottura, un’esplosione rivoluzionaria in cui cambia il concetto di arte e la prospettiva di visione della nostra epoca che, in quel preciso momento storico, negli anni del primo conflitto mondiale, decretò la morte dell’arte. Ma si può realmente parlare di morte dell’arte o piuttosto si assiste a una trasformazione estetica? “Per estetica, naturalmente, non si vuole intendere la vecchia concezione idealistica di –scienza del bello- ma si prende in considerazione la parola in senso etimologico, nel suo significato filosofico originario, vale a dire di sensibilità, dal greco aisthesis, -sensazione- 
Le analisi di Francesca Alinovi sul Dadaismo nel saggio Dada anti-arte e post-arte, pubblicato nel 1980, non prescindono dalle implicazioni storiche del fenomeno. Dada fu una sensibilità d’avanguardia al passo con i tempi e con le ansie di rivoluzione, ma fu, soprattutto, l’anticipazione di un vuoto, di un nonsense del fluire della vita che è diventato il comune senso della collettività contemporanea. Dada, nel suo essere improduttivo, ha reinventato l’idea svuotandola del significato originale, portando l’arte ad essere anti arte, nella perdita della sua sostanza di forma e di tecnica. Siamo di fronte a uno scambio di ruoli, a un ribaltamento dei significati dove il concetto stesso di arte smette di esistere. Nel suo saggio L’Alinovi parla di “una programmatica degradazione dell’arte stessa”, di “un abbassamento indefinito dell’arte verso la condizione normale dell’esperienza quotidiana”Nella leggerezza del fenomeno Dada le arti si fondono e si contaminano simultaneamente in un'espressione artistica generale che unisce poesia, teatro, letteratura, musica e arte. Alla lettura di poesie si accostavano vere performances di danza, musica e arti plastiche molto simili agli happening degli anni ‘50/’60. 

L'analisi storico critica dell’Alinovi  pone in evidenza come questi “happening” al Cabaret Voltaire (il locale di Zurigo al numero 1 della Spiegelgasse, che ospitò le serate) sviluppassero, contemporaneamente, attraverso la danza, una regressione  allo stato selvaggio e, allo stesso tempo, una proiezione nel futuro, sollecitati dall’uso delle maschere africane e dei “costumi da robot” di gusto cubista. L’aspetto importante del fenomeno Dada resta dunque l’annullamento della rigidità degli schemi mentali e la liberazione del corpo, quell’annullamento delle barriere tra le arti che sarà il riferimento costante  delle sperimentazioni e delle ricerche personali del lavoro critico di Francesca Alinovi.  

 In “Dada anti-arte e post-arte”, la studiosa cita il recente studio del fisico teorico francese Jean E. Charon, autore del saggio “Lo spirito questo sconosciuto” (1979)  che avrebbe avuto il merito di “dare a questa ombra inquietante un volto, per così dire, umano e immanente, strappandolo dalla pericolosa aura metafisica e trascendente in cui lo avevano relegato le vecchie filosofie”. Nella sua analisi sulla macchina dadaista come energia e prolungamento dell’uomo e della sua dimensione erotica , l’Alinovi cita lo studioso francese sostenendo che “Lo spirito, nella teoria di Charon, si identifica con la corrente stessa di elettricità che pervade l’universo e i nostri corpi; lo spirito è il campo magnetico che satura di sé il cosmo”. Conclude l’Alinovi sostenendo che in questo modo, “con l’emigrazione di dati informativi da un elettrone all’altro, compresi quelli rimasti a navigare nello spazio dopo la morte fisica dei loro detentori materiali” , ci sarebbe una spiegazione scientifica a fenomeni come il sogno, l’inconscio, la parapsicologia, lo spiritismo. 

Con i ready-made Duchamp si “emancipava del tutto dall’obbligo del lavoro manuale”. La sua ruota di bicicletta si ispirava al significato simbolico del cerchio, e alle sue doti ingegneristiche, perfetta manifestazione della meccanica e del valore di perfezione del segno nel linguaggio dell’arte. “I ready-mades [...] esistono solo come punti di raccordo tra diversi pensieri che si comunicano tra un cervello e l’altro per mezzo di impulsi elettrici, scariche, scintille. Anzi, come ho già detto, la loro funzione primaria è quella di creare sostanzialmente sempre nuovi pensieri, alimentando così indefinitamente il proprio potenziale energetico iniziale”. Quelle di Duchamp sono “macchine cerebrali”, egli ha preso infatti un ordinario articolo della vita di tutti i giorni e lo ha disposto in modo tale "che il suo significato abituale è scomparso sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista, creando un nuovo pensiero per tale oggetto”. “I ready-mades si comportavano come parole “, si liberavano “di ogni residuo visivo per sfondare definitivamente la barriera del letterario e del concettuale”. L’atteggiamento di Duchamp verso la macchina non era "affatto di ammirazione, ma ironico” “per screditarla in modo bonario, leggero e senza importanza” perché, come scrive l’Alinovi, “l’apparato scientifico-tecnologico […] verrà sempre avvertito da Duchamp come fonte di divertimento, come incitamento alla fantasia e alla evasione dalla realtà perché, da uomo del primo Novecento, cercherà  di mantenere  sempre un atteggiamento stupefatto, e insieme ironico e demistificante, nei confronti della scienza”. 


Nella sua analisi di Dada, l’Alinovi esplora l’altro volto di questa  rivoluzione estetica che si espresse in aspetti antitetici ma comunque strettamente in relazione con la società tecnologica del suo tempo. Per questo, alla massima rarefazione fisica dell’opera in Duchamp e Picabia, pone in relazione il Dada tedesco, che  giocò invece, sullo spessore fisico dell’opera sino a raggiungere dimensioni architettoniche. 


Se Duchamp fu “scienziato illuminista” Schwitters si sentiva “un costruttore” ossessionato dal “delirio materico”. "Nella visione estetica di Schwitters gli scarti della società non sono espressione di una carica distruttiva, bensì costituiscono la vera materia prima da cui poter ricominciare daccapo per ricostruire il mondo. [...]”. Dopo il 1920. Tzara penserà di accostare casualmente le parole senza una logica secondo una tecnica che l’Alinovi chiamerà “tecnica collagistica del linguaggio”.

Pubblicato da Antonella Colaninno

  
Le serate del Cabaret Voltaire di Zurigo erano organizzate da Hugo Ball insieme ad Emmy Hennings e vi parteciparono Marcel Janco che realizzava i costumi e le maschere di scena, Hans Harp, Richard Huelsenbeck, Tristan Tzara. “Un'atmosfera molto simile a quella del Cabaret Voltaire si diffonderà ben presto anche a Berlino” dove “il più autentico mattatore sarà il non ancora politicizzato George Grosz”.”Ma lo stesso può valere anche per le altre due città tedesche al centro della esplosione dada: Colonia e Hannover.” L’evento più clamoroso di Colonia sarà quello della mostra alla birreria Winter, nell’aprile-maggio 1920, dove il, pubblico, per entrare, era costretto a passare attraverso i gabinetti della birreria stessa tra esalazioni di alcool e odori di ogni genere”. Nella sala espositiva c’era un acquario pieno d’acqua color sangue, con un orologio a sveglia sul fondo, una parrucca da donna galleggiante sulla superficie e un braccio di legno che sporgeva fuori. Nella stessa stanza Ernst aveva sistemato un’ascia in modo che il pubblico era invitato a distruggere le opere, “invito che peraltro venne accolto con piacere”.

In foto: Francesca Alinovi; il Cabaret Voltaire di Zurigo; Duchamp e la Ruota di bicicletta; Francis Picabia; Kurt Schwitters; Schwitters - Forms in Space .

martedì 19 agosto 2014

FRANCESCA ALINOVI E L'ARTE DI FRONTIERA


“L’arte d’avanguardia non solo non è morta, ma ha dissotterrato la sua ascia di guerra e batte il tam tam lungo le linee di frontiera di Manhattan: 1982, fuga da New York”. FRANCESCA ALINOVI




di Antonella Colaninno

Anticipare i tempi e il divenire di una situazione artistica ” […] che si è poi venuta sviluppando in forme quasi vertiginose fino a diventare emblematica, se non dell’intero arco della ricerca artistica dell’ultima stagione newyorchese, almeno di ciò che con più urgenza oggi emerge nell’area della costa atlantica e nel baricentro di New York, riducendosi per linee non marginali al più diramato contesto dell’american graffiti”. (Francesco Solmi, prefazione ad Arte di frontiera di Francesca Alinovi) 

Francesca Alinovi, critica d’arte del DAMS di Bologna, attenta e sensibile protagonista della scena critica internazionale di quegli anni, ci ha lasciato un importante contributo sull’arte di frontiera, un approfondimento appassionato sull’arte dei graffiti che emergeva come avanguardia destinata ad essere non solo fenomeno di moda della nuova generazione new wave, ma una traccia  indelebile del progredire del contemporaneo. Francesca Alinovi ha registrato nei suoi scritti tutte le esperienze maturate nel corso dei suoi studi e dei suoi viaggi a New York accanto ai protagonisti della scena di strada del South Bronx. “L’attuale arte d’avanguardia, più che sotterranea, è arte di frontiera; sia perché sorge, letteralmente, lungo le zone situate ai margini geografici di Manhattan […] sia perché, anche metaforicamente, si pone entro uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed èlite, bianco e nero (alludo al colore di pelle), aggressività e ironia, immondizie e raffinatezze squisite”. La creatività non può prescindere da questo contesto urbano o suburbano che dir si voglia e “nel Bronx tu vedi crescere assieme piante e fili elettrici, animali e carcasse d’automobili, uomini e tecnologia”. L’arte di frontiera è natura e cultura, barbarie e civiltà. Estetica dell’eterna infanzia che diventa dimensione metropolitana. “[…] vivere nel Bronx è eccitante, perché ritrovi forze vergini vivendo accanto a comunità di non acculturati nel senso  tradizionale del termine, in un ambiente terzomondista che si è rifatto natura a due minuti dal cuore di Manhattan”. L’arte di frontiera si racconta per “immagini-parole” che nascono da una dimensione puramente individuale. Esse sono una scrittura veloce di simboli che si nutre degli stimoli dell'immaginario elettronico e trasforma  le parole in onde sonore nello spazio che diventa fantascienza, quartiere degradato. Il nuovo linguaggio supera le minoranze e diventa lo slang del 2000 per riscattare anche nell’arte le diversità razziali. Una vera avanguardia che muoverà i primi passi negli anni Ottanta  organizzandosi in collettivi e in spazi no-profit. CoLab (Collaborative Projects, Inc.) è “un gruppo molto agguerrito di artisti che decide di organizzare una grande mostra pubblica aperta a chiunque voglia esporre, artisti e non artisti, vecchi e bambini, bianchi e neri, dilettanti e professionisti, in antagonismo, proprio come nella tradizione di un’avanguardia che si rispetti, nei confronti di musei, gallerie e perfino dei cosiddetti non-profit spaces, gli spazi alternativi, sorti negli anni ’70, trasformatisi col tempo in mostruosi marchingegni burocratici”. “Fashion Moda è una galleria molto poco convenzionale, e per nulla commerciale, che da tre anni vive con successo, impiantata nel più pericoloso e malfamato quartiere di New York, il South Bronx”. “Museo di scienza, arte, tecnologia, invenzione e fantasia, e assieme come concetto culturale e qualcosa di essenzialmente inedito e differente”. Così definiva il suo spazio Stefan Eins, direttore  insieme a Joe Lewis della galleria, all’incrocio tra la Third Avenue e la 149° Strada. Una galleria nata con lo scopo di condividere un’idea democratica di cultura non più esclusivamente elitaria, che univa gli artisti alla gente che viveva questi luoghi. Fashion Moda  cercava di “combinare un forte sentimento locale, etnico, con un forte sentimento planetario”
“Da questo clima di libera avventura è stato creato un linguaggio sofisticato e complesso con l’intento particolare che esso possa essere visto e goduto nel mondo dei sobborghi urbani, in mezzo al caos e al fragore della vita reale e della gente reale”. Sono gli artisti di frontiera con le loro storie di infantile tragedia mai cresciuta, e di speranze soffocate troppo presto dalle droghe e dalla malattia. 


Rammellzee è l'artista del Panzerismo iconoclasta e della guerra delle lettere con l’esercito dei suoi soldati: A ONE, B ONE e C ONE. Morto a soli 49 anni, conosceva, pur non avendo mai studiato, i manoscritti dei monaci medievali e le lettere gotiche viste sui testi originali alla Biblioteca di Bryant Park, tra la 42° Strada e la 5° Avenue. Il suo esercito di lettere si divideva in lettere armate e lettere disarmate: “le prime assomigliano ad antichi guerrieri medievali armati di missili, le seconde si presentano decorate di fiori. Questo è lo stile ornamentale, il primo è lo stile “armamentale” . “Rammellzee non ha mai letto McLuhan, eppure parla di un esercito di lettere in guerra analogo all’esercito dei denti del drago guerriglieri del mito di Cadmo. Rammelzee non ha mai letto Orwell, eppure ipotizza la fine del sistema di comunicazione occidentale per il 1984”. 


Kenny Scharf, con i suoi collage interni all’opera, impresse nel colore, lascia scorrere  per frammenti le immagini, come “isole di senso senza nessun legame di continuità”. I disegni di Keith Haring sono scrittura veloce, calligrafia nello spazio che diventa ideogramma e  procede come un fotogramma da fumetto. Questi artisti avvertono la decadenza di un’epoca dominata dall’eccesso e dal disastro. “La cultura della catastrofe e dell’apocalisse trasforma  i geroglifici di Keith in figure elementari di umanoidi infantili, bambini degenerati in serpi tortuose ma uniti con cordoni ombellicali ai tubi catodici della TV e ai fili aggrovigliati del telefono”. “Il bambino radioso, l’emblema firma di Keith, contaminato da animali e da macchine tecnologiche voraci, si esibisce in frenetiche avventure di sesso e di alienazione”. 

John Ahearn, ex fondatore di CoLab, raccoglie  i suoi esemplari umani, tutti di pelle scura, e li sistema in regolare successione sulle pareti degli edifici  in una sequenza che denuncia “un’esplosiva forza razziale”. E ancora, Ronny Cutrone, che lavorava nella Factory di Andy Warhol, Donald Baechler, e Judy Rifka. Una minoranza multietnica che si è imposta sul mercato dell'arte con un linguaggio di maggioranza, attinto dai mass-media e dall’universo digitale, che ha coniato slangs personali e confuso i sistemi della comunicazione attuale, artisti che "escono dai ghetti della periferia, coi piedi imbrigliati tra i rottami ma col cervello fatto levitare dalle onde telepatiche di informazione onnidiffusa che viaggia sotto i cieli di New York” . Francesca Alinovi.



Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Francesca Alinovi; Keith Haring; Francesca Alinovi; il gallerista Tony Shafrazi; Rammellzee; Kenny Scharf; John Ahearn; Kenny Scharf:



lunedì 28 luglio 2014

FRANCESCA ALINOVI E LE “FRONTIERE DI IMMAGINI”. L’IMPORTANZA DI RIPENSARE ALL'INCONTRARIO…




“Se guardo, invece, a molte opere degli artisti attuali mi accorgo che le loro immagini vogliono scorrere molto rapidamente davanti al mio sguardo , e che inoltre pretendono di essere molto loquaci con me, facili e piacevoli, e mi sorprendono per la loro socievolezza. Una socievolezza amichevole e affettuosa come quella che si stabilisce tra il lettore e gli abituali personaggi dei fumetti, eroi spesso goffi e maldestri, e perciò accattivanti , di divertenti imprese. Certi fumetti, al contrario, non mi concedono proprio nulla: storie inconcludenti piene di incongruenze e buchi vuoti, tavole dal segno estremamente elaborato e complesso che mi rimandano a citazioni colte e dotte […]” FRANCESCA ALINOVI


di Antonella Colaninno

L’arte di frontiera è un’arte che non ha confini. E’ un’esperienza fluida, una dimensione liquida che corre sul filo del tempo e dello spazio, pronta a scomporsi della propria identità per accogliere su di sé le dissolvenze dell’altro nel vortice della contemporaneità compulsiva che sprigiona energie. E’ questo il pensiero che racchiude l’esperienza estetica di una perenne contaminazione tra le arti, che disperde, nell'estensione della conoscenza,  il rigore semantico dei linguaggi. Le frontiere di immagini superano il limite di rigore mentale destinato ad un’idea ormai sorpassata di campo concettuale per porsi in relazione con l’altro sino al punto di confondersi e di identificarsi . Francesca Alinovi raccoglie in un breve saggio  intitolato “Frontiere di immagini” la riflessione sull’inversione di tendenza della comunicazione per immagini in un’analisi comparata tra fumetto e pittura dove anche il ruolo del pubblico finisce col subire un cambio di rotta nella percezione. “Si pensa, di solito, che il fumetto sia facile, mentre l’arte è difficile. E poi, il fumetto è loquace, mentre l’arte tace. Il fumetto scorre a strisce, l’arte invece se ne sta ferma in un quadro solo. Il fumetto è un mezzo di comunicazione di massa, fatto per essere riprodotto tipograficamente e bruciato all’istante da una consumazione visiva avida e ansiosa, mentre l’arte è un prodotto elitario, fatto per esistere come oggetto unico e irripetibile, e per durare eternamente nel tempo e nello spazio”. Gli anni in cui questo saggio prese vita fu un periodo di grande cambiamento e confusione che visse sulla scia della grande rivoluzione del costume del ’68 e della concettualità poverista. Anni in cui si sperimentarono nuove strade e si cercò di recuperare il rapporto con la materia e con una nuova fisicità: quella del proprio corpo . La performance, solo da poco tempo diventata uno strumento di comunicazione , rappresentava un’importante  esperienza individuale  ma condivisa. La stessa comunicazione dell’immagine negli anni Settanta si trasferisce su un registro di comprensione variabile che non resta più fisso nel limiti della propria sfera di azione ma si apre a nuove esperienze, a nuove possibili  forme espressive. E’ quello che accade al fumetto e ai suoi autori. Scrive l’Alinovi: “Eppure la linea aguzza, i tagli cinematografici dall’alto e di sottinsù, le prospettive curvilinee, indicano una volontà di ricerca sul segno e sul tratto grafico che esula dalla normale produzione del fumetto destinato al consumo massificato”. Nuovi tagli dell’immagine, campiture di colore estese definiscono un progetto grafico innovativo molto più vicino alla pittura che ad un tipo di comunicazione immediata e veloce. Si acquisisce un’autonomia dell’immagine che non necessità più di scorrere in fotogrammi perchè si basta nella propria autosufficienza.  Una somiglianza con la pittura che vedremo estendersi anche nei contenuti. “Dunque, analogia di tecniche e stili tra “pittori”(tra virgolette) e fumettisti, e analogie di temi e contenuti: storie inconcludenti disegnate o dipinte dentro al recinto ristretto della cornice (cornice del quadro o della vignetta) e disseminate per frantumi nello spazio, quello più vasto della parete o quello più minuscolo della pagina illustrata”.  La sensibilità individuale dell’artista resta il tratto dominante di questa comunicazione ibrida, come la libertà di sentirsi svincolati da codici di segni prestabiliti e di navigare in un mare aperto deliberando di approdare nella terra dalle superfici mobili e interscambiabili. Un ritorno all’immagine nella sua costruzione spaziale e nel suo essere soggetto parlante all’interno della propria cornice. ”Non più schiere anonime di disegnatori alla Walt Disney o per la Marvel Comics, ma individui che si espongono e si compromettono, che creano, attraverso la manipolazione di linguaggi massificati, il proprio inconfondibile stile e linguaggio soggettivo, pur nella anonimia e talvolta, della ripetizione di formule prefabbricate”. Tendenze che si incrociano, punti di vista che cercano strade comuni, e aspettative all’incontrario. “Perché non esporre, appunto, i fumetti nel museo e a loro volta pubblicare le pitture su “Frigidaire” ?”  “Credo che oggi, per tutti, non si tratti altro che di transitare per brevi momenti su territori di frontiera, scorrere avventurosamente lungo avamposti instabili, per attimi d’incontro, di scambio, di contaminazione”. La cultura dei mass-media passa così, attraverso la cultura intelligente, tra codici e “cultura evidente” creando una confusione di percorsi tra citazioni colte da museo e immagini veloci da stampa per fumetto. Un’inversione che ha reso più comprensibile la pittura e più impegnato il fumetto. “E per questo che l’arte si è, apparentemente, socializzata e il fumetto si è fatto più sociale” scrive l’Alinovi. Artisti come amebe pronti a fagocitare ogni forma di espressione, come spugne di mare pronte ad assorbire il plancton dell’immaginario collettivo. Alcuni fumetti sono privi di personaggi e di storie, sono simbolo di se stessi, auto significanti nel proprio apparire forma e materia. 


E’ il caso di Massimo Mattioli che realizza figure che occupano quasi interamente lo spazio della vignetta come Joe Galaxy e le perfide lucertole di Callisto 4°. “Le sue tavole sono dei capolavori di rigore grafico, e assieme sembrano dei Wesselman e dei Matisse” dove prevale la seduzione cromatica e la comunicazione del piano frontale, “[…] presentato come una doppia facciata di disco”. Mattioli gioca sulla percezione attraverso lo straniamento e la deformazione dei suoi personaggi. Ma se Mattioli resta più vicino a allo stile del fumetto, Nicola Corona rappresenta l’alter ego nel suo essere “il più anomalo dei fumettisti”. Uno stile new dada e pop, per dirla all’Alinovi, dove l’uso del collage e di prospettive sovrapposte e sezionate rendono la visione di un caos metropolitano, e “[…]  di una fantascienza prossima ventura di tipo global – planetario che investe le più minute azioni giornaliere”. 


Giorgio Carpinteri si distingue per le semplicità del segno grafico quasi matematico, dalla linea esile ma dai volumi corposi, molto simili a forme geometriche, “[…] le sue tavole sembrano figlie di Balla e Depero, e certe macchine antropomorfe sembrano copiate dai primi lavori di Lèger e di Picasso”. Una ricerca sul segno più vicina alla dimensione pittorica che a quella narrativa del fumetto. Un’immagine ricercata dalla linea spigolosa che nella sua originalità si fa quasi citazione tra energia umana e costruzione tecnologica, a metà tra “arida macchina e calda umanità” come in Fredd il detective  “fenomeno di natura snaturato”. “Per questo il poliedro è la sua unità di misura stilistica: perché gli serve per conferire un aspetto di umanoide in similpelle a tutti i suoi personaggi perseguitati da una natura matrigna […]”. Sempre sulla semplicità del tratto grafico che si fa scarno ed essenziale, e a tratti liquido lavora Marcello Jori. 


Il suo Minus, ma non diversamente Carletto e Feto, rappresenta la forza di un comunicare leggero e poetico attraverso esili e timidi tratti del disegno. Aldo Spoldi come anche Luigi Ontani nel campo della pittura, seguono un percorso surreale che si basa sulla potenza espressiva e sul valore dell’immagine in sequenza.


 Un Ontani esoterico che gioca sul senso dell’ambiguità tra realtà ed illusione, tra passato e presente, fissità extra temporale e narcisismo kitsch nella mitologia del quotidiano. E  sempre tra realtà e fantasia si muovono i personaggi di Aldo Spoldi, figurine piatte e disarticolate che attingono all’immaginario del fumetto, “[…] che perdono, strada facendo, arti e teste e, come piccoli eroi edificanti e un po’ tonti delle fiabe per l’infanzia, cadono, rotolano, precipitano sempre giù, confortati dalla propria esilarante bontà”.  


Scrive l’Alinovi: “Né Ontani né Spoldi, comunque, narrano delle storie tantomeno, le cuciono a strisce”. La trama narrativa lineare e sequenziale lascia il posto ad una interpretazione libera e polisemantica giocata sul valore illustrativo dell’immagine e su evocazioni ironiche da cartoons. In Spoldi ”[…] tutto viene rigorosamente riportato in primo piano, così che gli scorci prospettici di tavoli, oggetti, brani di paesaggio, si squadernano, come nei disegni dei bambini delle elementari […]” Infine, Andrea Pazienza con il suo Zanna ci porta nel mondo dove l’impossibile si realizza nel tutto è possibile, “[…] ignobile: “rovinato” fino in fondo nel fisico e nel morale” Zanardi alias Zanna “compie azioni del tutto spregevoli che non meritano nessuna indulgenza o comprensione. E’ semplicemente un tipo da evitare, un tipo che nessuno si augura di incontrare sulla propria strada”. Un segno incisivo dai toni noir “selvaggiamente espressivo” “contorto, tortuoso, irritante”. Un mondo di personaggi che hanno toccato il fondo rasentando l’approssimazione alla regola. 



“Anche perché Andrea, dietro al gergo insignificante da fauna fricchettona da “piazza Verdi” inserisce citazioni dotte da manuale dell’intellettuale degli anni Ottanta, inserendo brani che vanno dal Manifesto del Signor Antipyrine alla Seduzione di Baudrillard . Interessantissimi, poi, i giochi di parole demenziali e babelici, e la composizione della pagina: multidimensionale, collagistica, affastellata da un tutto pieno barbaro e selvaggio. Le sue storie non sono mai a sequenza, ma piuttosto a coesistenza libera nel tempo e nello spazio, e la successione lineare del tempo di lettura è più una costrizione di carattere tipografico dovuta al medium usato che una straordinaria scelta espressiva dell’artista” Non a caso Andrea è straordinario nella realizzazione di tavole singole, come nella serie “Amore mio”, splendenti “a solo” eseguiti, come sempre, a pennarello, ma dell’intensità e raffinatezza cromatica di un dipinto”.  



Pubblicato da Antonella Colaninno


Francesca Alinovi, Frontiere di immagini

In foto:  Francesca Alinovi; Joe Galaxy di Massimo Mattioli; fumetti di Giorgio Carpinteri; Minus di Marcello Jori; opera di Luigi Ontani; oli su tela di Aldo Spoldi; Zanardi alias Zanna di Andrea Pazienza; Andrea Pazienza.