Storicamente
la fotografia ha avuto i suoi movimenti di rottura col passato e ne sono
conseguite conquiste di linguaggio in alcuni casi grandissime, nessuno ha però
in se stesso preso il nome di avanguardia, come avanguardia fotografica è la
stessa che spezza la storia della espressione in un prima e in un dopo senza
reversione possibile. E’ questa la base di giudizio di tutte le avanguardie
fotografiche. R. Chini,Il linguaggio fotografico, Torino,
1968
di Antonella Colaninno
Del saggio “La
fotografia: illusione o rivelazione?” è stata esposta all’attenzione dei
lettori la riflessione critica di Francesca Alinovi, che rappresenta la prima
parte di questo lavoro scritto a quattro mani. L’analisi di Alinovi si è
soffermata su quegli aspetti della fotografia legati alla dimensione del sogno
e dell’evasione, da se stessi e dal mondo, alla ricerca di quella illusione che, attraverso l’artificio, porta la fotografia ad essere nel mezzo tra scienza e
fantasia. La seconda parte del
saggio critico svolta da Claudio Marra intende, invece, affermare l’idea della
fotografia come pura rivelazione. La “rivelazione” è quella “pratica che si rivolge alle cose per
indirizzarle alla nostra attenzione”. L’identità della fotografia, spiega
Claudio Marra, è un fatto culturale e non puramente meccanico del mezzo
fotografico. Il nostro studioso pone in
relazione la fotografia e la rivelazione con il cinema, la filosofia, la
letteratura e la psicanalisi. In ambito letterario la scrittura di Marcel
Proust mostra “una continua tensione al
disvelamento e alla rivelazione delle cose”; il suo occhio si trasforma “in sguardo disvelatore capace di
frantumare, o comunque portare ad evidenza, i vari abiti nei quali, di volta in
volta, le cose ci appaiono”. La letteratura, si pensi a Pirandello ad
esempio, allo stesso modo della macchina fotografica, “mette a nudo fatti e persone, li strania rivelandone la goffaggine,
rende gli uomini consapevoli della finzione dietro la quale, normalmente, si
celano”. Negli studi sulla psicanalisi è Freud in persona ad affermare nei
suoi scritti che “la fotografia, o
meglio, la pratica del fotografare, è qualcosa di molto vicino, per modello di
funzionamento, ai meccanismi che regolano la nostra vita psichica”, perché
l’oggetto si rivela e diventa parte del nostro mondo. Anche il cinema diventa
uno strumento “per prolungare questo
incontro rivelativo” col mondo, e la filosofia come il cinema, contribuisce
a questo percorso di conoscenza, “perché
riflessione e lavoro tecnico procedono nello stesso senso”. Sarà il
Novecento a correre “sulla
strada della rivelazione” e se l’Ottocento “presenta
interessanti casi di poetiche della rivelazione”, questi possono considerarsi solo casi isolati. Claudio Marra, nel suo saggio, considera Alfred Stieglitz l’interprete “del senso di un’epoca, di tutta una visione del mondo”, e per
questo la storiografia fotografica è d’accordo nel considerarlo “il padre della fotografia moderna”.
L'istantaneità è quella “pratica
diretta verso le cose, come rifiuto della finzione, come volontà di
relazionarsi al mondo” che “si
presenta non tanto come specifico fotografico, ma piuttosto come specifico
culturale che Stieglitz prontamente intuisce e fa suo”. L’atto del fotografare rappresenta “l’autoaffermazione
del soggetto nei confronti del del mondo” mentre la tecnologia ha il potere di svelare la verità e di rivendicare la fisicità delle cose.
Per Stieglitz la rivelazione è un
fatto estetico, fatto di relazioni, equilibrio e conoscenza, che implica,
necessariamente, la necessità di individuare e circoscrivere le cose stesse,
recuperandole da quel caos di rapporti che caratterizza solitamente il mondo”. Se Stieglitz lavora sull’isolamento e sulla
istantaneità, Lewis Hine e August Sander preferiscono rivolgersi ad un processo
di schedatura della realtà. Una poetica che rappresenta, tutto sommato, un modo per filtrare la realtà, per conoscerla. che acquisirà dei risvolti antropologici nella fotografia di ambito
criminale.
In Sander tale poetica raggiunge, inconsapevolmente, un valore sociale nella pura “manifestazione di archetipi culturali”, non a caso “Sander, scrive Marra, fotografava per stereotipi, annullando
completamente il dato psicologico individuale”.
Nella fotografia di Atget la rivelazione si manifesta verso quegli aspetti che il nostro occhio considera di per sé apparentemente
inutili. Ciò che ci appare insignificante prende ad un tratto rilevanza, e ci
appare nella “folgorazione dell’istante” come una magica epifania. Atget
rappresenta quel “filone della
rivelazione […] che trova nella fenomenologia uno dei suoi punti di maggiore
forza”. Nelle sue foto manca l’elemento umano e “le cose vi dominano solitarie ed assolute” non prive di
quell’elemento psicologico che si manifesta nella loro rivelazione. Le fotografie di Atget furono punto di osservazione per surrealisti
e dadaisti che lavorarono sul
valore del nonsense dell’oggetto, banalizzandolo e decontestualizzandolo.
Anche per Freud,
scrive Marra, “l’inutile, il
secondario, viene ampiamente riscattato come strumento per accedere
all’inconscio e alla sua articolazione”. Il dinamismo e la velocità dei
tempi moderni così cari al Futurismo, trovarono un’eco nel fotodinamismo
fotografico di Anton Giulio Bragaglia. “In
Bragaglia c’è infatti da un lato, l’intenzione di condurre un’indagine rigorosa
sul movimento dei corpi e sugli effetti che ne derivano, e dall’altra, […]
quella di cogliere lo “spirito della realtà viva” così da “rendere ciò che
superficialmente non si vede””. Un recupero, quindi, della spiritualità
attraverso la “smaterializzazione dei
corpi” che cerca di “giungere
all’essenza e allo spirito delle cose”, oltre a ricercare un punto di equilibrio con gli aspetti
strettamente scientifici del mezzo fotografico.
Diversamente accade per la poetica di
Man Ray. La pittura è considerata un fatto intimo e la fotografia un fatto
pubblico. In Man Ray ciò che conta davvero non è il mezzo fotografico, ma “l’idea che guida il lavoro dell’artista”,
per cui “l’idea che viene stimolata
dall’immagine prevale nettamente su quello che è il semplice dato oggettuale”.
In Man Ray “si manifesta apertamente
l’uso concettuale della fotografia” “il gesto fotografico non avanza infatti
nessuna pretesa circa un’eventuale autonomia formale dell’immagine, ma si
dichiara subito, e apertamente, gesto affettivo e di conservazione”. I suoi
Rayographs sono paragonati alla
scrittura automatica dei surrealisti “luogo
della casualità e pratica dell’inconscio per eccellenza”.
Con Moholy-Nagy “profeta del post modernismo” si assiste
invece, al recupero del primato della tecnologia. Nella sua rivoluzione
estetica, che affida alla vista il primato della sensorialità, “le macchine hanno preso il posto dello
spiritualismo trascendentale”, perché “la
tecnologia ha un’anima”, “è lo spirito che anima la tecnologia” . E’
possibile “ rendere visibile, attraverso
la macchina fotografica, cose che l’occhio umano non è in grado di afferrare o
di percepire” e “la macchina
fotografica può perfezionare o integrare il nostro strumento ottico: l’occhio”.
I fotomontaggi di John Heartfield sono veri lavori pittorici legati all’idea di movimento. Il valore compositivo è costruito sulla scomposizione e ricostruzione dell’immagine che porta
la fotografia ad essere un’identità labile che oscilla tra finzione e rivelazione. Allo stesso modo possiamo considerare gli specchi di Florence Henri che giocano sul senso dello sdoppiamento e del
corrispettivo opposto del doppio. “Il
piano e la profondità si spezzano dando vita ad arditissime combinazioni di angoli,
gli oggetti riflessi non appaiono sempre nitidi e precisi ma spesso acquistano
una patina di suggestione e di mistero […]”. “Lo specchio, scrive Claudio Marra, è una sorta di macchina fotografica
imperfetta, che non sa trattenere le immagini.”
In un interessante capitolo sul realismo, l'autore
riflette sul valore storico dell’idea di realismo che non può essere
considerato in modo unilaterale ma solo come concetto relativo che necessita di
essere visto ed interpretato alla luce del proprio contesto storico di
riferimento. Per questa ragione, anche il fotodinamismo di Bragaglia è da
considerarsi una forma di realismo, alla luce del fatto che i futuristi consideravano il movimento come una realtà o, "ancora più drasticamente, come l’essenza della
realtà”. Marra parla delle due strade del realismo: l’una coglie “il momento decisivo”, “l’attimo fuggente da bloccare, in lotta
contro l’inesorabilità del tempo; e l’altra, quella del così detto “tempo lungo”, “dell’eternità congelata”
e prolungata all’infinito. Nell’ambito di queste categorie si inserisce la poetica
di “ di Erich Salomon che “eleva il fatto normale-banale a fatto degno
di considerazione.”
Per commentare la fotografia di Brassai, Claudio Marra
ricorre al pensiero di Marshall McLuhan, alla sua “immagine del mondo dell’era fotografica come di un bordello senza
muri”, “che non custodisce più gelosamente i propri vizi, ma invece
li trasforma in oggetti da vetrina, posti affettuosamente a disposizione di
tutti”. Sia le immagini della Parigi
notturna che i Graffiti incisi sui muri della città fotografati dal nostro
artista, “possono essere ricondotti ad un’idea di rivelazione e ”fanno parte “di
un’indagine rivelativa che affonda, anche se per itinerari differenti, su un
unico oggetto, la città intesa come groviglio e deposito di esperienze, come
accumulo di indizi da ricercare e svelare”.
In bilico tra istantaneità e
congelamento, Brassai afferma che “la
realtà spinta all’estremo fa capo all’irrealtà” e che “andare dritti alle cose significa accertarne la magia”. Scrive ancora Marra: “se per Stieglitz, la fotografia
rappresenta il mezzo per riscattare poeticamente la bassezza e la volgarità
delle cose, dall’altro, per Brassai, c’è invece un vero e proprio compiacimento
nell’affondare lo sguardo in ciò che di più sordido la città offre durante la
notte”. “I veri nottambuli vivono la notte non per necessità ma per gusto, per
tendenza innata. Appartengono al mondo del piacere, dell’amore, del vizio, del
crimine, della droga…io avevo fretta di entrare in quest’altro mondo ai margini
del nostro”. La fotografia per Brassai diventa la voce di una coscienza
collettiva che ci proietta “direttamente
in mezzo alle cose”. Per Henri Cartier-Bresson l’istantaneità rappresenta, invece, l’opportunità per entrare in relazione col mondo. La scelta, condivisa con la fondazione dell’agenzia Magnum, di acquisire la proprietà dei propri
negativi diventa “metafora del
passaggio dall’idea moderna di possesso della cosa a quella post moderna di
controllo sull’informazione e sulla circolazione del prodotto”, in anni in
cui l’informazione giornalistica, documentata dal reportage giornalistico, lascia il posto all’informazione televisiva che porterà, come conseguenza, alla chiusura di molte
testate tra cui la rivista Life.
Sia per Ansel Adams che per Diane Arbus la
fotografia rappresenta, inoltre, un importante strumento di apertura al mondo esterno, un
modo “per tornare a sentire la vita, per
immergersi in essa” accettando il caos e la sua “violazione della norma”. I ritratti della Arbus sono i “nostri mostri quotidiani”, nani e
soggetti mongoloidi sono i mostri “naturali”
a cui si aggiungono i mostri “culturali” per i modi diversamente
normali di vestirsi e di comportarsi. Questi mostri sono “persone che avendo accantonato la paura e l’angoscia per qualcosa di
traumatico che da un giorno all’altro potrebbe accadere, possono permettersi di
guardare la vita con distacco”. Rivelazione per la Arbus significa “infrangere il muro delle apparenze e
tentare di avvicinarsi all’essenza della realtà”.
L’ultimo capitolo del
saggio di Marra si interroga sul cammino della fotografia verso un processo di
normalizzazione della propria ricerca che, partendo dagli inizi del Novecento, si
conclude negli anni sessanta e settanta con un approccio di tipo estetico
nell’acquisizione dell’immagine e della sua rivelazione. Per Marra la fotografia ha influenzato avanguardie artistiche come la Pop Art che attinse dalla fotografia la frontalità
dell’oggetto e la ripetitività di rappresentazione, oltre alla poetica
dell’isolamento e dell’ingrandimento degli oggetti che si fanno, in questo modo,
rivelativi del proprio
straniamento. L’immagine, infatti, acquisisce valore in sé ma perde di identità, acquista
un valore oggettuale nella ripetizione di se stessa. Le più recenti conquiste
della fotografia si proiettano sul prolungamento della sensorialità e sulla
dilatazione mentale, come il caso di Patella che si propone non di
rappresentare l’inconscio quanto piuttosto di “proiettarvisi dentro”. Dalla sfera del concettuale la
fotografia si introduce nel campo della Body Art, entra in relazione
con il nostro corpo, e rivolge il proprio sguardo meccanico verso la persona, cercando di affermare la propria presenza nel mondo. La fotografia giunge ad
immolare la banalità e l’apparente inutilità della gestualità e “il riscatto della banalità, del quotidiano,
dell’inutile, raggiunge il massimo dell’effetto con le ricerche della Narrative
Art” perché rivelazione significa
anche saper “vedere, con occhi diversi,
particolari insignificanti, tanto da estrarre conseguenze sorprendenti da
minime tracce”. Un po’ come accadde nel lavoro di Franco Vaccari presentato
alla Biennale del ’72 dal titolo “Lasciate
una traccia del vostro passaggio” in cui i soggetti delle fototessera
lasciano trasparire nell'istantanea un’immagine di sé diversa rispetto a quella
tradizionale. Vaccari ha così realizzato la sua “poetica della traccia”, “una fotografia che è
azione, che vale nel suo svolgersi” che supera l’idea stessa di staticità
dell’immagine. Accanto alla nozione di “tempo
reale” scrive Marra, “c’è, per
esempio, da segnalare quella di “inconscio tecnologico”, nozione tipicamente
mcluhaniana che Vaccari, con buon tempismo, sa cogliere in tutte le sue
conseguenze”.
Pubblicato da Antonella Colaninno
In foto: Claudio
Marra; Fotografia; illusione o
rivelazione? di Alinovi-Marra; A.Stieglitz,
“Ritratto di Georgia O’Keeffe”, 1919; Lewis
Hine, “Cigarmakers, 1909; August
Sander; Atget, “Boulevard de Strasbourg, Corsets”, Paris, 1912; Anton Giulio Bragaglia, “Type writer”,
1911; Man Ray, “Lee Miller”; John Heartfield; Florence Henri; Erich
Salomon; Brassai, “Chaze-suzy”, 1932;H,Cartier
Bresson, “Julien Gracq”, France, 1984;
Diane Arbus; Franco Vaccari.
CLAUDIO MARRA
Laureato in Estetica nel 1976 con una tesi a
titolo "Teoria e pratica della fotografia nelle avanguardie
storiche". Dal 1983 al 1999 ha insegnato Fotografia nelle Accademie di Belle Arti, a Ravenna, Firenze
e Bologna. Dal 1997 al 2000 è stato Professore a Contratto di Storia della
fotografia presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Bologna, dove,
dall'A.A. 2001/02, è Professore Associato confermato. Insegna anche presso la
Scuola di Specializzazione in Beni Storici Artistici della stessa Università.
La sua attenzione storico-teorica è in
particolare rivolta al problema della collocazione della fotografia in una più
organica prospettiva di estetica generale, nonché ai rapporti che intercorrono
tra ricerca fotografica e arti visive.
Oltre all'attività di ricerca svolge
un'ampia attività critica rivolta sia al versante storico sia a quello di una più
stretta contemporaneità, come testimoniano le molte collaborazioni con il Mambo (Museo Arte
Moderna di Bologna), con altre importanti istituzioni pubbliche e con varie
gallerie private.
Dal 2001 al 2006 è stato docente nel Master per Curatori di Arte Contemporanea organizzato dal Macro (Museo
di Arte Contemporanea di Roma) e dalla Facoltà di Architettura di Valle Giulia.
Nel 2007 è stato docente nel corso per curatori di archivi fotografici organizzato
dalla Fondazione Zeri dell'Università di Bologna. E' stato consulente
I.R.R.S.A.E. dell'Emilia-Romagna per il piano di aggiornamento Docenti per le
Arti Visive.
Nessun commento:
Posta un commento