“L’arte
d’avanguardia non solo non è morta, ma ha dissotterrato la sua ascia di guerra
e batte il tam tam lungo le linee di frontiera di Manhattan: 1982, fuga da New
York”. FRANCESCA ALINOVI
di Antonella Colaninno
Anticipare i tempi e il divenire di
una situazione artistica ” […] che si è
poi venuta sviluppando in forme quasi vertiginose fino a diventare emblematica,
se non dell’intero arco della ricerca artistica dell’ultima stagione
newyorchese, almeno di ciò che con più urgenza oggi emerge nell’area della costa
atlantica e nel baricentro di New York, riducendosi per linee non marginali al
più diramato contesto dell’american graffiti”. (Francesco Solmi, prefazione
ad Arte di frontiera di Francesca Alinovi)
Francesca Alinovi, critica d’arte
del DAMS di Bologna, attenta e sensibile protagonista della scena critica
internazionale di quegli anni, ci ha lasciato un importante contributo sull’arte
di frontiera, un approfondimento appassionato sull’arte dei graffiti che
emergeva come avanguardia destinata ad essere non solo fenomeno di moda della
nuova generazione new wave, ma una traccia indelebile del progredire del contemporaneo. Francesca Alinovi ha registrato nei
suoi scritti tutte le esperienze maturate nel corso dei suoi studi e dei suoi
viaggi a New York accanto ai protagonisti della scena di strada del South
Bronx. “L’attuale arte d’avanguardia, più che sotterranea, è arte di
frontiera; sia perché sorge, letteralmente, lungo le zone situate ai margini
geografici di Manhattan […] sia perché, anche metaforicamente, si pone entro
uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed èlite, bianco e nero
(alludo al colore di pelle), aggressività e ironia, immondizie e raffinatezze
squisite”. La creatività non può prescindere da questo contesto urbano o
suburbano che dir si voglia e “nel Bronx
tu vedi crescere assieme piante e fili elettrici, animali e carcasse
d’automobili, uomini e tecnologia”. L’arte di frontiera è natura e cultura,
barbarie e civiltà. Estetica dell’eterna infanzia che diventa dimensione
metropolitana. “[…] vivere nel Bronx è
eccitante, perché ritrovi forze vergini vivendo accanto a comunità di non
acculturati nel senso tradizionale del
termine, in un ambiente terzomondista che si è rifatto natura a due minuti dal
cuore di Manhattan”. L’arte di frontiera si
racconta per “immagini-parole” che
nascono da una dimensione puramente individuale. Esse sono una scrittura veloce di simboli che si nutre degli stimoli dell'immaginario elettronico e trasforma le parole in onde sonore nello spazio che diventa fantascienza,
quartiere degradato. Il nuovo linguaggio
supera le minoranze e diventa lo slang del 2000 per riscattare anche nell’arte
le diversità razziali. Una vera avanguardia che muoverà i
primi passi negli anni Ottanta organizzandosi in collettivi e in
spazi no-profit. CoLab (Collaborative Projects, Inc.) è “un gruppo molto agguerrito di artisti che decide di organizzare una
grande mostra pubblica aperta a chiunque voglia esporre, artisti e non artisti,
vecchi e bambini, bianchi e neri, dilettanti e professionisti, in antagonismo,
proprio come nella tradizione di un’avanguardia che si rispetti, nei confronti
di musei, gallerie e perfino dei cosiddetti non-profit spaces, gli spazi
alternativi, sorti negli anni ’70, trasformatisi col tempo in mostruosi
marchingegni burocratici”. “Fashion Moda è una galleria molto poco
convenzionale, e per nulla commerciale, che da tre anni vive con successo,
impiantata nel più pericoloso e malfamato quartiere di New York, il South
Bronx”. “Museo di scienza, arte,
tecnologia, invenzione e fantasia, e assieme come concetto culturale e qualcosa
di essenzialmente inedito e differente”. Così definiva il suo spazio Stefan
Eins, direttore insieme a Joe Lewis
della galleria, all’incrocio tra la Third Avenue e la 149° Strada. Una galleria
nata con lo scopo di condividere un’idea democratica di cultura non più
esclusivamente elitaria, che univa gli artisti alla gente che viveva questi
luoghi. Fashion Moda cercava di “combinare un forte sentimento locale,
etnico, con un forte sentimento planetario”.
“Da questo clima di libera
avventura è stato creato un linguaggio sofisticato e complesso con l’intento
particolare che esso possa essere visto e goduto nel mondo dei sobborghi
urbani, in mezzo al caos e al fragore della vita reale e della gente reale”. Sono gli artisti di frontiera con le loro storie di infantile tragedia mai
cresciuta, e di speranze soffocate troppo presto dalle droghe e dalla malattia.
Rammellzee è l'artista del Panzerismo iconoclasta e della guerra delle lettere con l’esercito dei suoi
soldati: A ONE, B ONE e C ONE. Morto a soli 49 anni, conosceva, pur non avendo mai studiato, i manoscritti dei monaci medievali e le lettere gotiche viste sui
testi originali alla Biblioteca di Bryant Park, tra la 42° Strada e la 5°
Avenue. Il suo esercito di lettere si divideva in lettere armate e
lettere disarmate: “le prime assomigliano
ad antichi guerrieri medievali armati di missili, le seconde si presentano
decorate di fiori. Questo è lo stile ornamentale, il primo è lo stile
“armamentale” . “Rammellzee non ha
mai letto McLuhan, eppure parla di un esercito di lettere in guerra analogo
all’esercito dei denti del drago guerriglieri del mito di Cadmo. Rammelzee non
ha mai letto Orwell, eppure ipotizza la fine del sistema di comunicazione
occidentale per il 1984”.
Kenny
Scharf, con i suoi collage interni all’opera, impresse nel colore, lascia scorrere per
frammenti le immagini, come “isole di senso senza
nessun legame di continuità”. I disegni di Keith Haring sono scrittura
veloce, calligrafia nello spazio che diventa ideogramma e procede come un
fotogramma da fumetto. Questi artisti avvertono la decadenza di un’epoca
dominata dall’eccesso e dal disastro. “La
cultura della catastrofe e dell’apocalisse trasforma i geroglifici di Keith in figure elementari
di umanoidi infantili, bambini degenerati in serpi tortuose ma uniti con
cordoni ombellicali ai tubi catodici della TV e ai fili aggrovigliati del
telefono”. “Il bambino radioso,
l’emblema firma di Keith, contaminato da animali e da macchine tecnologiche
voraci, si esibisce in frenetiche avventure di sesso e di alienazione”.
John Ahearn, ex fondatore di CoLab, raccoglie i suoi esemplari umani, tutti di pelle scura, e li sistema in regolare successione sulle pareti degli edifici in una sequenza che denuncia “un’esplosiva forza razziale”. E ancora, Ronny Cutrone, che
lavorava nella Factory di Andy Warhol, Donald Baechler, e Judy Rifka. Una
minoranza multietnica che si è imposta sul mercato dell'arte con un linguaggio di maggioranza, attinto dai mass-media e dall’universo digitale, che ha coniato slangs personali e confuso i sistemi della comunicazione attuale, artisti che "escono dai ghetti
della periferia, coi piedi imbrigliati tra i rottami ma col cervello fatto
levitare dalle onde telepatiche di informazione onnidiffusa che viaggia sotto i
cieli di New York” . Francesca Alinovi.
Pubblicato da Antonella Colaninno
In foto: Francesca Alinovi; Keith Haring; Francesca
Alinovi; il gallerista Tony Shafrazi; Rammellzee; Kenny Scharf; John Ahearn;
Kenny Scharf:
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