“Quando
McLuhan, quasi vent’anni fa, scrisse lo straordinario Understanding Media, nel
delineare i caratteri della megalopoli elettronica del futuro, fondata
sull’informazione […] previde che il nuovo oggetto principale di
produzione e consumo sarebbe stato non
più il possesso economico dei beni, bensì l’attività di apprendimento. […]
“l’acquisizione di un sapere sempre più vasto e qualificato viene a costituirsi
come la nuova forma di impiego principale” Francesca Alinovi
di Antonella Colaninno
Se pur in un breve arco di anni, prima della tragica scomparsa
nell’estate del 1983, Francesca Alinovi è stata la voce più
significativa e ispirata della nuova generazione di critici e artisti chiamati
a caratterizzare la cultura del nostro fine secolo. Il suo pensare in arte, verso ogni manifestazione e declinazione artistica, ha superato le frontiere del
pregiudizio e della discriminazione intellettuale. La sua ricerca, spinta verso la liberalizzazione del pensiero, ha cercato di rilevare quanto la
creatività fosse un campo mentale aperto, tra cultura alta e comunicazione massmediatica. Francesca Alinovi
aveva un “entusiasmo da pioniera
dell’arte”. E’ stata protagonista della storia delle avanguardie anni ’80, ma purtroppo la cronaca nera, il delitto
efferato hanno offuscato la memoria della studiosa, che è stata un ponte
tra la New York dei graffiti e la New wave italiana. I suoi soggiorni a New
York rappresentarono un momento importante di apertura della ricerca oltre
frontiera e rilevarono la possibile
connessione culturale tra le diverse aree geografiche, “per un naturale rapporto di simpatia tra i giovani artisti europei e
americani (e in particolare tra italiani e americani)”.
L’arte mia è una raccolta di brevi saggi
scritti dall’Alinovi e pubblicati in un volume edito dalla casa editrice il
Mulino, un anno dopo la sua morte, nel 1984. Il volume esordisce con un saggio
dal titolo “New York: città della
conoscenza o città del -Kitsch-?” nel quale la critica d’arte riflette sul
rapporto tra società ed estetica e prende in esame il pensiero quasi profetico
di Picabia e di Duchamp, “ideatori dell’arte
concettuale”, che sostenevano che la macchina fosse il tramite espressivo
dell’arte e che New York sarebbe diventata la residenza permanente degli
artisti. ”New
York ", scrive Francesca Alinovi, "è il modello della città estetica ideale […], essa funziona più che come
città industriale di tipo moderno, come città futuribile della conoscenza e
della sensazione […], incarna la Knowledge City pronosticata da Daniel Bell
[…], si qualifica anche come la città Kitsch per eccellenza, analoga al
paradiso delle merci descritto da Abraham Moles come emblema della nuova
società affluente”. “In altre parole New York si presenta come una palestra della sensazione, oltre che della
conoscenza.”
Ma L’arte mia,
(che da il titolo oltre che alla raccolta di saggi, anche a un saggio del
volume), è quell’arte
“del saper stare in mezzo: in mezzo tra
le varie discipline artistiche […], non perché nel mezzo risiede la virtù, ma
perché negli interstizi vuoti tra i diversi campi si annidano, come tra gli
anelli di Saturno, le forze di energia più intense e sconosciute.” “L’arte MIA
è dunque l’arte della creatività del singolo, autonomo, che si collega a tanti
altri individui, autonomi, per ricavarne un allargamento e un potenziamento
indefinito di sé.” L’arte Mia è “una prospettiva esaltante” che sostiene la
libertà dell’artista di cercare un proprio ruolo creativo, ed “è l’arte delle identità fluttuanti e
dissolte”, dove ogni singola identità partecipa “dell’Altrui e della Collettività”. “Liberi da tendenze e da stili, […] gli artisti oggi fanno ciò che
vogliono.” “Il MIO di ciascun individuo ha senso e
valore solo se è sintonizzato con il mio di tutti gli altri , se comunica cioè,
con il tutto”. Secondo quanto sostiene la studiosa, sarebbe nato un nuovo “stile
internazionale”, un nuovo “Gotico
internazionale” “anch’esso ricchissimo, felice, e non per nulla “fiorito”, con
cui si chiuse l’epoca medievale e si aprì l’era moderna. Oggi il post
modernismo assomiglia sempre più a un neo medievalismo di ritorno […]”. Il
Post modernismo infatti “esclude per
principio l’introduzione del nuovo, dell’imprevisto e del l’ignoto, attenendosi
scrupolosamente ad un criterio coerente e scontato di rivisitazione del passato
e di citazionismo dalla storia […]”. L’espansione dell’arte tra stili e
discipline trova inoltre nella performance la modalità di proiezione dell’inconscio
dell’artista verso l’esterno, “come una
dilatazione epidermica della sua pelle superficiale” che riscopre l’autenticità
del gesto.
Il volume raccoglie, tra gli altri, saggi come “LE DUE VIE DI
PIERO MANZONI” che rappresenta, ancora oggi, l’analisi critica forse più
profonda scritta sul giovane artista, “FRONTIERE
DI IMMAGINI”, una riflessione sulle
affinità elettive tra arte e fumetto, e “NATURA IMPOSSIBILE DEL POST-MODERNO”
nel quale la studiosa riprende il pensiero del teorico del postmodernismo Daniel
Bell per il quale la nuova società è
basata “sulla codificazione del sapere
entro sistemi simbolici astratti “, modelli di simulazione che, per mezzo del
computer, consentono di ottenere “esperimenti
controllati su vasta scala nelle scienze sociali”. Nei tre paragrafi del
saggio la studiosa pone un termine di paragone tra idea contro natura, tecnologia contro natura e infine tra natura contro natura.
Pubblicato da Antonella Colaninno
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