Nudo di donna EGON SCHIELE















mercoledì 4 maggio 2011

GIUNGLA OPERE DI PINO PASCALI

          
                           

Si resta affascinati dalla sagoma nera di un elefante che avanza sullo sfondo di un paesaggio inesistente, arso dal calore di un’energia misteriosa e sconosciuta. Sembra quasi di ascoltare il passo pesante e deciso del rinoceronte e di percepire il caldo torrido del clima africano.
Sono gli animali di Pino Pascali (Bari,1935 - Roma,1968), un universo straordinario di suggestioni che evocano i tramonti infuocati dell’Africa raccontata nelle pagine di Karen Blixen e di Kuki Gallmann. Ascoltiamo il barrito dello stesso elefante, che immobile, nella vastità di un non luogo, si sfuma nel bianco di una monocromia lunare, minacciato dall’assenza di ogni probabile presenza. Ritroviamo più in là, nella scena, il rinoceronte in corsa, elegante sagoma oscura, appena illuminata sul dorso, che immobile, è intento a recuperare le proprie energie. Due zebre danzano, forse impegnate in un corteggiamento, sullo sfondo di un’atmosfera dai toni crepuscolari, mentre una giraffa mostra tutta la sua spontanea sensualità mangiando le foglie di un albero dal tronco sottile. Un canguro solitario osserva in lontananza un punto a noi sconosciuto, assorto in meditazione, mentre strane sagome di animali preistorici riportano alla mente i graffiti della grotta di Lascaux. Questa è la Giungla di Pino Pascali, popolata da animali senza tempo, animali che lo stesso Pascali definisce "[…] un soggetto, […] un’immagine, un contorno già fatto, una parola già stampata che mi affascina ancora […]  [… ] mi sembrano degli intrusi, una cosa che non appartiene alla nostra razza.” Pino Pascali gioca con le forme, le reinventa, da vita a bizzarre e poetiche figure di pesci, a strani coccodrilli simili ai suoi bachi da setola. Sono forme semplici desunte dall’immaginario giocoso dell’infanzia, nel quale il mondo svela la magia della propria innocenza. E a questo mondo appartengono il topolino buffo con il corpo a forma di parallelepipedo, i pesciolini colorati, che ricordano i disegni di Kandinskij e gli strani pappagalli dal becco quadrato e dallo sguardo allucinato, figure a metà tra il cartoon e l'immagine di un manifesto pubblicitario. Infine due strani insetti verdi, dalle forme quasi preistoriche, occupano l’unico spazio possibile sulla sterminata purezza di una superficie grigia, uno spazio invisibile ma ben definito nello sguardo disincantato di Pino Pascali sul mondo.


Scritto da Antonella Colaninno





lunedì 2 maggio 2011

DA CHE ARTE STAI?
                       Una storia revisionista dell’arte italiana.



“Basta sfogliare i cataloghi delle grandi mostre internazionali degli ultimi quindici vent’anni per capire quanti Jalisse ci sono nell’arte italiana”. “…un percorso (divertente solo se non si fa il conto di quanti soldi pubblici sono stati sprecati per le stupidaggini dei curatori)”. Luca Beatrice.


Una cronaca pungente e appassionata, un reportage sul costume e sugli eventi che hanno fatto mode e tendenze di un’epoca visti dalla parte dell’arte. Così Luca Beatrice racconta la storia dell’arte dal Sessantotto ai giorni nostri nel suo volumetto “Da che arte stai?” “Una storia revisionista dell’arte italiana” (Rizzoli), ripercorrendo cronache ed episodi che hanno caratterizzato le ultime tendenze della contemporaneità. Un’arte dunque, che interpreta la violenza, lo scontro ideologico, l’ottimismo degli anni ’80 e il berlusconismo degli anni Novanta, che rinvia di un decennio la rottura sessantottina. Una storia dell’arte italiana considerata provinciale che si consuma nelle periferie geografiche delle molteplici città e cittadine che impedisce di lanciarsi in un mercato globale dominato dalla scena americana con la centralità di New York e dall’Europa delle grandi capitali. Una storia che non può non considerare l’arte alla luce degli eventi della Biennale di Venezia che, a partire dagli anni ’90, ha finito per essere più una vetrina sul mondo che un inno al Made in Italy. Una riflessione che considera Mario Schifano la figura centrale, l’icona pop di borderline, che ha contribuito forse, più della Transavaguardia di ABO alla vera rivoluzione del post Sessantotto. Non l’Arte Povera teorizzata da Germano Celant che propugna un’arte viva e reale provocatoriamente rappresentativa di se stessa rappresenta il vero momento di rottura, perché “sia il Sessantotto sia l’Arte Povera sono fenomeni conservatori; a entrambi interessa ribadire la propria forza, prendersi il potere e non lasciare niente indietro”. “Sono molti i bravi artisti coetanei dei poveristi a essere emarginati perché non allineati o non interessati a usare l’arte per fare politica”. Un giudizio forte quello di Beatrice, che definisce Celant un “critico battagliero” e l’Arte Povera “il primo supergruppo dell’arte contemporanea italiana”. Secondo Beatrice, l’Arte Povera è la versione italiana di uno spirito internazionale che guarda all’America del New Dada e della Minimal Art e alla Germania di Joseph Beuys e che riassume nel titolo del suo primo testo manifesto “Appunti per una guerriglia” tutto il suo spirito rivoluzionario e politico. La Transavanguardia è lo specchio di un’Italia che “… corre a grandi passi verso il laicismo, la modernità, la ricchezza”e vuole esprimere semplicemente la propria essenza italiana. Dal concettuale alla riscoperta della pittura, dalla ideologia politica al successo e al denaro, sino alle recenti performances al femminile di Vanessa Beecroft e alle provocazioni del padovano Cattelan, artista autodidatta e anticonformista.
Dopo l’ottimismo degli anni ’80, si avvia una progressiva decadenza dell’arte italiana, “un vuoto” che secondo i teorici della globalizzazione è causato dall’apertura delle frontiere che mette a rischio un paese geograficamente piccolo come l’Italia. Gli anni Novanta tra l'altro, vedono crescere di numero i musei rispetto agli artisti e si caratterizzano per la creazione di premi d’arte (su modello del Turner Prize del 1984, organizzato dalla Tate Gallery di Londra) che spesso offrono denaro e successo all’artista o quanto meno grande popolarità, come nel caso del nostro Premio Cairo Communication. L'arte italiana resta comunque, esclusa dai grossi circuiti fieristici, da Documenta di Kassel, alla Biennale di Manifesta dove, nella prima edizione del 1996, siamo presenti solo con due artisti e con il solo Cattelan nell’edizione del 1998. Non ci sono italiani nell’edizione del ’95 e del ’97 della Biennale di Lione, mentre nel 2000 saranno presenti Cattelan e Ontani. Ma intanto, l’Italia esterofila invita Szeemann per due biennali a Venezia. Con l’inizio del terzo millennio si avvia un nuovo percorso dell’arte,“un cambio di direzione nell’estetica visuale”per dirla alla Beatrice, che vede l’artista nuovamente impegnato con spirito critico alle vicende del proprio tempo, che esce dalla nicchia della propria dimensione esistenziale ed abbraccia le grandi problematiche che affliggono l’umanità. Si affermano artisti come il kosovaro Sisley Xhafa e l’albanese Adrian Paci. Si entra nell’era della spettacolarizzazione dove la sfera del privato diventa il non luogo della comune indifferenza e di un voyeurismo che vanta cattivo gusto e volgarità. Ma l’arte non può essere politica, sostiene Beatrice. “Senza lo scarto poetico, infatti, l’arte non si da” perché “la visione politica rivela il conformismo del pensiero unico…”. “Eppure è proprio questo uno dei filoni oggi di tendenza, un’evoluzione della cultura dell’evento e dell’Happening talmente estremizzata da negare la figura individuale dell’artista…”. In questo flusso di eventi e di immagini Beatrice vede "nell' assemblaggio" il nuovo “momento creativo”, si considera inutile dover produrre nuove immagini e si preferisce il riutilizzo delle fonti già esistenti. “Come nella fortunata trasmissione Blob di Enrico Ghezzi, l’accostamento di immagini diverse può far scaturire un significato imprevisto, dunque nuovo”. E Cattelan ne è un esempio. Un’arte globale che finisce per vivere in uno spazio pubblico, “condiviso”, e passare tra la curiosa indifferenza e la curiosità perplessa della gente. Un’arte imposta che suscita polemiche e provocazioni nel tentativo di convivere con l’opinione comune.
Luca Beatrice pone alla fine una riflessione su quale sia il ruolo dell’architettura oggi, alla luce dei recenti progetti del MACRO e del MAXXI di Roma rispettivamente delle progettiste Odile Decq e Zaha Hadid e se sia in fondo più giusto parlare di arte e architettura o piuttosto chiedersi se arte è architettura.
Una storia dell'arte italiana che sfida la provocazione e che può essere revisionista solo sulla base di un punto di vista al quale si domanda: ma tu da che Arte stai?


 Scritto da Antonella Colaninno




Luca Beatrice (Torino, 1961) è critico d’arte e docente all’Accademia Albertina di Torino. Curatore della Biennale di Praga (2003-2005) e della programmazione culturale per il Comune di Perugia (2005-2009), nel 2009 ha curato il Padiglione Italia alla Biennale di Venezia. Tra le sue pubblicazioni Nuova arte italiana (Castelvecchi 1998). Scrive per “Il Giornale”, collabora al settimanale “Torino Sette” (La Stampa) e a “Il Domenicale” e alle riviste “Arte”,“Max”,“Rumore”,“Hurrà Juventus”.