Nudo di donna EGON SCHIELE















giovedì 30 settembre 2010


di Antonella Colaninno
Molte le polemiche intorno al MAXXI, il Museo dell’Architettura del ventunesimo secolo, una istituzione culturale nata per diffondere la conoscenza dell’architettura e sottolineare il suo ruolo primario nella società. Su questa linea il Comitato Nazionale Giulio Carlo Argan e la Fondazione Bruno Zevi hanno organizzato il convegno internazionale “Progettare per non essere progettati: Giulio Carlo Argan, Bruno Zevi e l’architettura”, svoltosi lo scorso 28 settembre a Roma, presso l’Auditorium del MAXXI. L’architettura come comunicazione, come conoscenza storica, come progettualità che deve unire l’idea di un disegno creativo alle reali necessità di una fruizione sociale degli spazi. Antifascismo e impegno intelletttuale era ciò che accomunava la ricerca di Argan e di Zevi. L’impegno politico di Argan è stato anche una battaglia poetica che rivendicava i propri ideali e auspicava il riscatto dell’arte moderna. Argan ha difeso il movimento moderno contro “l’avanguardia dei gamberi”e l’accademismo, racconta Marco Biraghi. Bruno Zevi invece, ha rappresentato la “cultura della consapevolezza”, destando la società civile sui misfatti della cultura, mentre Argan ha investito la sua speculazione filosofica sulla crisi dell’agire e del metodo scientifico, sulla “crisi della conoscenza moderna”che per lui si era determinata con il Neoclassicismo che aveva segnato una rottura con la continuità della tradizione antica. Ha intuito che la storia dell’arte non poteva essere fatta empiricamente ma che andava necessariamente storicizzata, seguendo l’evoluzione del suo divenire, come un’esperienza fenomenologica. Argan parlava di una vera e propria scienza dell’arte che recupera il rapporto con la natura e il dialogo con la propria storia, per questo, Brunelleschi e Palladio esprimono la fiducia del Rinascimento e il suo rapporto di continuità con l’antico che recupera solo in modo ideale, Borromini e Michelangelo le ansie del proprio tempo e i contemporanei la crisi d’identità dell’uomo moderno. Per Argan l’architettura deve riscoprire la sua identità nella società contemporanea e guardare il passato attraverso la contemporaneità. Deve ritrovare la sua condizione nella drammaticità della sua decadenza. L’architetto è un urbanista e per questo è un intellettuale che persegue un razionalismo estetico attraverso una lotta politica contro ogni speculazione edilizia. La coscienza individuale è emblema della coscienza civile rappresentata dalla architettura, simbolo del costruttivismo individuale e sociale. Argan parla di una crisi dell’arte come scienza europea. L’architettura ha una funzione pedagogica; è la forma tipica della costruttività e quindi ha una valenza sociale. La Bauhaus è una scuola di costruzione e di trasformazione libera. E’stata la prima scuola democratica fondata sulla collaborazione che identifica la crisi della borghesia tedesca. Anche il design, il disegno industriale rientra nell’architettura perché ha una funzione sociale. Massimo Cacciari ha parlato della “morte dell’arte”nel pensiero di Argan. La bellezza classica è nel suo dar forma completamente all’oggetto, mentre nell’arte moderna c’è l’estraneità della misura e viene meno l’idea del concetto. Nel contemporaneo manca la parola, sostiene Cacciari, l’arte non giunge a piena espressione, manca di parole, è incompleta. Argan afferma che “l’arte è immagine del nostro essere per la morte”. “L’arte ha a che fare con la verità, con la sensibilità, trapassa il tempo e la storia”. “La verità muore nella contemporaneità, rappresenta la morte dei valori e la storia è un momento della verità”. Per Hegel, spiega Cacciari, la morte dell’arte viene superata nella filosofia. “Arte come parola che và al proprio silenzio e il valore diventa pura merce”. “Se perde la capacità di sentire, l’arte perde il suo pensiero e diventa scienza senza coscienza, arte senza valore, senza “logos comune””. Bisogna riscoprire “l’etica della responsabilità”. Per Valentina Russo, dell’Università Federico II di Napoli, “le modernità sono processi in atto”. “L’urbanistica estetica deve trasformare la città per fini civici”. Infine, alcune considerazioni di Sandra Montenero su Argan politico e sul suo mandato di Sindaco di Roma negli anni 1976-1979, primo sindaco non democristiano del dopoguerra eletto nelle liste della Sinistra Indipendente. Un mandato difficile che coincide con gli anni del terrorismo, nel quale Argan deve confrontarsi con le difficoltà di una città il cui centro storico è insediato di molteplici attività commerciali senza il controllo di alcuna strategia organizzativa. Così, Argan intuisce l’importanza di istituire più assessorati, alla periferia e al centro storico, che si occupino nello specifico, delle problematiche delle diverse aree urbanistiche, considerando la città come un corpo unico, uno spazio democratico che appartiene a tutti.

martedì 21 settembre 2010

VERTIGO. IL SECOLO DI ARTE OFF- MEDIA DAL FUTURISMO AL WEB.







di Antonella Colaninno
Con piacere ripropongo in questo blog una mia recensione scritta alcuni anni fa su una bellissima mostra allestita in occasione dell’apertura del MAMBO, Museo d’Arte Moderna di Bologna dal titolo Vertigo. Il secolo di arte off-media dal futurismo al web curata da Germano Celant.
Non si poteva pensare ad un termine più appropriato ed emotivamente più percettibile di quello di “vertigine”per identificare lo smarrimento dei punti di equilibrio che ci danno la certezza della nostra dimensione psicofisica e di tutto quello che è materialmente altro da noi. La rottura degli equilibri, la perdita della centralità è l’essenza della nuova arte, delle avanguardie che hanno determinato la trasformazione dell’estetica classica reinterpretando l’arte attraverso nuove esperienze di comunicazione quali il cinema, la fotografia, i media che hanno rappresentato l’inizio di un mutamento mentale, sociale ed estetico totalizzante, di apertura verso la diversità, di perdita dell’accentramento delle varie categorie artistiche. Inevitabilmente ciò ha portato alla “globalizzazione” delle arti nella loro valenza espressiva e immaginifica, alla perdita di quel sottile confine che fa della diversità un’esperienza artistica unica ed irripetibile. La società dell’informazione e della comunicazione di massa determina un’arte in cui è forte, mediatico il potere dell’immagine, che diventa prorompente, incomprensibile, provocatoria e rivoluzionaria. L’arte guarda alla tecnologia e alla meccanicità dell’industria e si ricrea per una società in trasformazione; l’arte non parte dal pennello ma dalla concettualità e in quest’ottica si inserisce la“Ruota di bicicletta”di Marcel Duchamp. Negli stessi anni la scuola tedesca del Bauhaus di Walter Gropius sperimenta un’arte totale che riunisce le conoscenze interdisciplinari, unendo tecniche e materiali differenti. Le sperimentazioni dello spazio di Fontana degli anni Cinquanta sono un’esperienza concettuale di superamento della fisicità della tela ma solo attraverso gli spazi infiniti della mente umana, poiché non può esserci un’arte spaziale che superi la fisicità della materia ma soltanto un “concetto”spaziale dell’arte; anche in queste sperimentazioni c’è di fondo un fatto di costume e l’arte è pronta ad interpretare l’ambizione umana di conoscenza dello spazio. Gli anni Sessanta vedono in America il trionfo della Pop Art che si fa portavoce dei valori consumistici della società di massa americana, dalla pubblicità, ai miti del cinema dandone una interpretazione psichedelica, attraverso l’uso di colori sintetici dalle tonalità molto forti, avvalendosi di una immagine ingrandita rispetto al modello di riferimento che diventa esemplare, ma che allo stesso tempo enfatizza la morte dell’immagine come icona moderna. Nel suo mostrarsi l’arte si rende invisibile. Alberto Boatto, nel suo apparato critico del catalogo della mostra intitolato “Il buon senso” dice della Pop Art:…”si è instaurata tra i due sistemi,quello artistico e quello massificato, una perfetta identità a un tempo iconografica, tecnico-formale e comunicativa, non solo con l’adozione delle immagini banali e quotidiane e dei medesimi procedimenti formativi, spersonalizzanti, rigorosi e meccanici propri dei media industriali, ma spingendo un simile parallelismo sino alla fase della circolazione, adoperando gli stessi standard quantitativi con cui i media di massa diffondono su larga scala un’immagine o un prodotto moltiplicati. Dilatandosi fin sul piano della diffusione e imitando la ridondanza della comunicazione tecnologica, il parallelismo pop con i mass media si è dimostrato totale”. E’l’industria a creare nuovi modelli culturali attraverso l’immagine pubblicitaria e lo slogan televisivo e dinanzi a questa cultura dell’effimero l’arte non può che rispondere imitando la moltiplicazione di queste icone. Sempre negli stessi anni si afferma un nuovo movimento, il Fluxus, che promuove un’arte totale, vicina alla quotidianità tanto da essere essa stessa vitale, con la creazione dell’happening, della performancee della videoarte in cui il video diventa il supporto su cui l’artista crea l’opera d’arte, fluida e reale come non mai; anche in questa esperienza l’arte si ispira al sociale e i mezzi di comunicazione diventano uno strumento indispensabile alla propria espressività, con i quali creare illusionismi tridimensionali, accompagnati da suoni ed effetti speciali. L’arte dunque, percorre un cammino parallelo a quello della tecnologia e “parla”un linguaggio ad essa comune; la nuova estetica non trascende la realtà, non si esprime nella perfezione cromatica e formale ma dialoga con la realtà, si compenetra al sociale e alle sue problematiche, realizza una simbiosi di tematiche e tecniche, perdendo la sua valenza etica, ideale, ben distinta nella propria autonomia e diversa dai valori economici e dalle mode di mercato. L’arte si fa strumentale, si svuota di contenuti e l’estetica diventa un’ esperienza puramente visiva che impedisce il coinvolgimento degli altri sensi. L’arte si diffonde come un qualsiasi prodotto industriale, come un prodotto di massa che si consacra attraverso i media; si diffonde attraverso mezzi meccanici quali la macchina fotografica, la cinepresa e il computer necessari per la registrazione di installazioni che si espletano come espressioni fruibili solo nel momento della performance, per cui è necessaria una registrazione su nastro o una fotografia come testimonianza della propria identità. L’immagine perde persino la sua autenticità, si svuota anche della sua reale fisionomia attraverso la creazione di figure e di spazi virtuali che costituiscono soggetti e ambientazioni di molti video e si avvalgono talora del supporto di brani sinfonici come colonna sonora, o di sonorità che evocano atmosfere ancestrali e illusorie. Ancora una volta l’estetica come percezione è affidata al suono e all’immagine tecnologica e quindi a forme di comunicazione alternative ai procedimenti tradizionali. Ciò che è cambiato è il modo di pensare la creatività, intesa non più come un fatto esclusivamente personale, ma come il risultato della centralità delle arti. Germano Celant, curatore della mostra sostiene che si è avuto “…un transito dall’andamento lineare del consumo dell’arte a uno circolare,….che rientra nel mondo del confuso e dell’instabile, di un vivere senza polarità…Ne deriva un vortice che risucchia ogni esperienza e ogni cosa,in cui tutti gli elementi del comunicare artistico entrano in un sistema complesso che è irriducibile, molteplice e circolare…lasciare il campo alla “vertigo”di una circolarità di relazioni…in cui i singoli elementi creatori si muovono “vertiginosamente”…in una circolarità artistica assoluta”. E’dal movimento futurista che si avvia il cammino di “Vertigo”, il quale si ripropone di riportare sulla tela l’energia del movimento. La mostra vuole sottolineare l’importanza di una totalità complessa che predomina sulla singolarità della creazione artistica, in una circolarità di tecniche e di espressioni, dove l’arte subisce l’influenza di altri linguaggi e perde la propria identità. La vertigine è la circolarità che comprende ogni manifestazione artistica ma è anche quel senso di smarrimento che coinvolge lo spettatore. Anche l’oggetto della quotidianità esce dalla logica tradizionale e si rinnova come nell’interpretazione delle opere di Duchamp in cui la quotidianità diventa opera d’arte nella logica concettuale dell’artista, così come per Max Ernst e per Fontana; l’arte si ricrea nei significati e diventa il prodotto di una filosofia che trae ispirazione nel caos della quotidianità. L’arte veicola “messaggi mediatici”che si esprimono nella velocità dell’esecuzione e nella diffusione dell’immagine; la sua fruizione è veloce,si consuma nella rapidità della proiezione, nella “riproducibilità meccanica”. Questo processo di creazione di visioni effimere e di consumo delle immagini si sublima nella Factory di Andy Warhol (centro della cultura trasgressiva della New York della fine degli anni sessanta, considerata una vetrina di personaggi stravaganti che immolavano la loro follia anticonformista davanti alla macchina da presa) nella quale l’arte perde persino le configurazioni concettuali delle avanguardie e registra passivamente ogni soggetto annullando l’immaginazione ed entrando in un circuito di vendita promozionale come un qualsiasi prodotto di consumo. L’immagine si esalta perché si svuotano i contenuti e si annulla il ruolo dell’uomo-artista in una società industrializzata e amorale che ha annichilito le possibilità della fantasia e del sentimento, lasciandosi inghiottire dalla voracità del consumismo. Scrive Celant “…Warhol condivide il carattere scettico e nichilistico della società contemporanea che non crede più nella ricchezza del significato ma nel potere dell’insignificante ed esalta l’immagine presente perché rinvia a una mancanza di realtà, di senso, di fede e di utopia. Questa società è consapevole dell’inutilità dell’artista, ma comprende che questa inutilità non va rimossa con buoni propositi o prospettive escatologiche; al contrario, va accettata ed enfatizzata, estesa e generalizzata. Infatti,se l’artista deve continuare a essere lo “specchio”della società, è costretto a evidenziare la mancanza di significato delle cose e la loro superficialità.” Per questo Warhol enfatizza la banalità e l’inutilità dell’immagine che nella società contemporanea acquista invece un valore di simbolo in un sistema privo di coscienza culturale; per questo ritrae la Coca Cola, la Campbell Soup o il mondo ovattato dello star system americano, di cui rappresenta con ossessione attori e attrici come le serie di Marilyn Monroe. Celant parla di processo “acreativo”di Warhol in cui l’artista riflette sulla realtà senza assumere però una posizione moralista e riflette nell’arte la pochezza di valori della società contemporanea. Del resto l’arte è l’espressione di un momento storico di cui deve riflettere gli aspetti e in questo caso partecipare della sua “designificazione”. La sua critica è invece rivolta “all’arte contemporanea che continua… ad occultare e coprire l’idiozia della società”. L’arte non ha più una valenza metafisica ma di fredda decodificazione del reale e per Warhol l’individuo è consapevolmente vittima della società e dei suoi ingranaggi; egli aveva visto più lontano di altri le sorti inesorabili dell’uomo contemporaneo, schiacciato dal potere economico dietro il quale si nasconde un regime che fa del denaro lo strumento assoluto di potere. Egli non affida all’arte un ruolo elitario,non la considera linguaggio principe tra le forme dell’espressività umana, ma la pone allo stesso livello delle altre manifestazioni togliendole la creatività e inserendola in un circuito produttivo anonimo, soggetta a continue contaminazioni nella indeterminazione dei linguaggi. Il mondo televisivo e virtuale ha esteso le potenzialità dell’immaginario dell’arte, creando visioni immateriali di cui fruire in un viaggio virtuale e tridimensionale dove l’estetica si espleta in una realtà multimediale e la tecnologia raggiunge un livello di massima qualità e una centralità assoluta. La percezione del reale è mediata attraverso il tubo catodico e il multimediale e l’opera d’arte si riproduce tecnicamente. I media hanno indotto un processo di rivoluzione del sistema organizzativo sociale e delle coordinate del pensiero e delle ideologie dell’uomo, decentrando i punti cardini del suo equilibrio. E’attraverso la carta stampata che la quotidianità e la cultura di massa entrano nell’universo dell’arte;è alla carta stampata che il Futurismo affida il suo manifesto, è con il collage che la quotidianità viene assunta come paradigma narrativo. L’arte quasi inconsciamente assorbe il dinamismo dei tempi moderni, la velocità della comunicazione e della diffusione di nuovi modelli economici; tempo e spazio si riqualificano nella rapidità del volgere del presente. Il classicismo con i suoi modelli lascia il posto al progresso e alla libera sperimentazione che si rinnova continuamente nella rapidità del divenire meccanico e inarrestabile della modernità. L’uomo è ormai annientato dal dominio della tecnica e l’arte incontra i media: Andy Warhol interagisce con le immagini delle riviste e dei cartelloni pubblicitari, Roy Lichtenstein con il fumetto…La Pop Art supera le stesse avanguardie e nella ripetitività e nel filmato immola il presente. L’immobilità dell’opera d’arte è superata dal movimento vertiginoso della vita umana e per questo la forma si dilegua nella linea, nel colore e nel concetto, per il quale la quotidianità e persino il materiale di scarto si fanno arte. Lo spettatore smarrisce il senso delle cose e coglie solo l’esteriorità di immagini veloci e spesso inquietanti attraverso un’”estetica dell’apparenza”. Questo freddo contatto con la realtà crea una frattura con la dimensione spirituale e intellettuale, crea un disagio, un’angoscia del vivere che è insita nell’enfatizzazione della vita stessa, nella gelida consapevolezza che la sua fine rappresenti il vuoto perenne. Tanto più è veloce il flusso della vita e il rapimento estatico dell’arte nel vortice della quotidianità, tanto più si fa opprimente il senso del nulla, del vuoto che la morte porta con sé, una morte che priva di ogni vitalità e che ha già spento gli slanci del cuore e della mente dell’uomo moderno. Il cinema e la fotografia hanno influenzato notevolmente l’arte dei primi decenni del Novecento; si pensi al Futurismo o al cerebrismo di cui fanno parte i ravennati Arnaldo e Bruno Ginanni Corradini che hanno sottolineato il dinamismo dell’arte rispettivamente nella linea dinamica e nei fotogrammi colorati che rappresentano l’unicità della pittura in una nuova tendenza che possiamo definire cine-pittura. Quello che per i Futuristi è dinamismo plastico diventa dinamismo astratto, performativo e mediatico per i cerebristi, che teorizzano un tipo di arte che indaga sui valori e sull’energia della mente umana. Sempre negli stessi anni i fratelli Anton Giulio e Arturo Bragaglia creano il “fotodinamismo”che fotografa il movimento in base alla linea di spostamento di un corpo nello spazio, riflettendo l’emozione che interessa il soggetto in questo frangente. Ne consegue una forma evanescente e un gesto veloce. Ciò che la rende opera d’arte è il fatto di aver immolato su negativo l’energia e la gestualità che l’artista ha creato attraverso un mezzo meccanico, come la macchina fotografica che diventa appunto un elemento di intermediazione e l’oggetto non subisce la fredda astrazione della riproducibilità meccanica. Infatti il fotodinamismo vuole elevare ad arte la fotografia superare la sua pedissequa riproduzione statica della realtà e sottolineare il dinamismo interiore che pervade il campo visivo su cui si costruisce lo scatto. La Fotodinamica analizza il movimento nel particolare e richiede l’impegno creativo dell’artista che sa emozionare lo spettatore allo stesso modo di un’opera d’arte manuale. Tutto questo però, non consentirà al fotodinamismo di far parte del movimento futurista nonostante nel saggio” Fotodinamismo futurista” del 1913 Anton Giulio asserisca il ruolo fondamentale del mezzo meccanico nell’espressione dinamica dell’opera d’arte. Fortunato Depero pone in risalto l’importanza del mezzo fotografico creando le foto-performance su cui interviene manualmente realizzando fotografie acquerellate. Con l’affermarsi della cultura dei media si impone un’estetica tecnologica che fa leva su nuovi strumenti di ricerca e che punta a creare effetti scenografici alterando le forme e distorcendo la visione tradizionale delle cose. La nuova cultura impone ai media il ruolo di strumento fondamentale nella realizzazione materiale di un’immagine, ma anche quello di essere un mezzo di congiungimento con il mondo esterno. La fotografia e il cinema consentono una gestione autonoma del tempo, l’artista è la voce narrante che attraverso i tagli e le aggiunte temporali estrapola un momento saliente e coglie una sensazione. Il soggetto si muove in un ambiente che è concettualmente gestito da chi lo crea. La fotografia è uno strumento di contaminazione delle varie forme di espressione che spazia dall’arte alla moda e ad altri campi della conoscenza, mentre lo schermo televisivo diffonde l’immagine per mezzo della velocità di proiezione e della ricchezza visiva. Il video televisivo non è un oggetto materialmente plasmabile, non conserva la traccia della preparazione artistica del suo autore; la proiezione dell’immagine resta invisibile perché è inviata da un ricettore esterno allo schermo. E’proprio tra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta che questo processo si estende totalmente fino a determinare nell’arte un cambiamento radicale dei suoi orientamenti, poiché i mezzi di comunicazione diventano un mezzo, un sistema di messa in opera e un punto di partenza nell’idea creativa, nel concetto di base, determinando una fusione tra il segno e la tecnologia. Questa compenetrazione di linguaggi non risparmia neppure il libro inteso come forma creativa, che riflette questo cambiamento, invadendo il campo del mediatico e trasformando il suo aspetto tradizionale. Il libro diventa puro esperimento concettuale che ha valore di per sé, si autorappresenta anche nell’estrema sottrazione di parole ed immagini. C’è una gestione di totale libertà del libro che ispirerà gli artisti di questa epoca. Secondo l’opinione di Germano Celant, a cui fa riferimento Giovanni Maria Accade nel suo compendio al catalogo della mostra dal titolo “Pagine di connessione”il libro Silence di John Cage ha influenzato notevolmente gli artisti; per l’autore il libro è la forma più idonea a descrivere il silenzio che contiene le pause e i suoni della vita, in una dialettica degli opposti che si ritrova nel taoismo orientale per il quale è dal nulla che hanno origine tutti i fenomeni,e che sostiene paradigmi come “la forma dell’informe”,”la vacuità della forma”,”l’essere è generato dal non essere”. Un’esperienza di rimando è quella di Piero Manzoni che pubblica nel 1962 un libro di cento pagine completamente bianche, mentre nella edizione seguente intitolata “Piero Manzoni. The life and the work”elimina segni e parole e sostituisce il supporto cartaceo con fogli di plastica trasparenti. Il libro si orienta sulla documentazione del quotidiano, sulla banalità della oggettività che perde qualsiasi accezione artistica; l’arte è al servizio della quotidianità e i valori estetici decadono in nome del valore oggettivo del libro e del progetto iniziale dell’artista. Si pensi a Ed Rusha che pubblica nel 1963 il primo di una serie di libri intitolato “Twentysix Gasoline Stations”che comprende ventisei fotografie in bianco e nero di stazioni di rifornimento di diversi paesi con didascalie di riferimento al tipo di benzina e all’area geografica, in assenza totale di testi e nella integrità oggettiva della immagine riprodotta. A ragione di molti studiosi questo esperimento può considerarsi pionieristico nella produzione del libro d’artista. Il potere dell’immagine invade tutti i campi della espressione artistica di quegli anni in nome di quella circolarità che apre i confini del prefigurato; anche il cinema d’autore più intellettualistico sfrutta il potere comunicativo della immagine. Si pensi a Michelangelo Antonioni e al suo Zabriski point del 1970 in cui le esplosioni finali si fondono su un senso liberatorio che esprimono la dimensione dell’inconscio della protagonista; per questo sono strutturate come visioni oniriche e iperrealiste, enfatizzate da una colonna sonora dalle musiche suggestive e deliranti. C’è una esagerazione del dato reale che viene rappresentato nella frammentazione delle sue unità; le esplosioni sono una vetrina sulla quotidianità e in questo delirio finale c’è un senso di svuotamento del potere dell’immagine che genera angoscia. Nella potenza dell’immagine è insita la sua stessa decadenza e il valore delle cose a cui la società moderna affida un ruolo sacrale si disperde lasciando un senso di smarrimento. Le esplosioni sono devastanti ma il regista le dirige come fossero una orchestra di colori, di fuochi pirotecnici che nel delirio finale rendono insignificante il senso del loro essere cose, di tutto ciò a cui l’uomo moderno affida un valore paradigmatico. Del resto tutto il film si basa sul senso comunicativo e artistico della immagine che ritrae luoghi e personaggi, documentando un” frammento” planetario, l’America, etnicamente vario e in questo ricorre quel senso di totalità e di eterogeneità che caratterizza la vertigine dell’arte del XX secolo. Si pensi alle zumate sui cartelloni pubblicitari, simbolo del consumismo o ai dissensi tra la polizia e il mondo studentesco del sessantotto rivoluzionario o il desiderio di libertà che spinge il protagonista maschile a rubare un aereo, incurante del destino a cui andrà incontro. Anche le scene di sesso libero rappresentano un fatto di costume,di una società oppressa che ha vissuto le contraddizioni di un’epoca ma anche le proprie contraddizioni, quelle di una società americana plurietnica e con una storia culturale di soli due secoli intensi di avvenimenti. Marco Senaldi nel suo scritto “Tele-estetica. Tra televisione e arte” rileva il confine che divide le diverse forme di comunicazione, definendo il cinema “l’occhio del Novecento”, il web come “il cervello del XXI secolo” e la televisione come il media più lontano da uno statuto estetico e da un valore artistico, rispetto allo stesso apparecchio- televisore che può essere usato artisticamente. La televisione ha una sua “autonomia linguistica” e determina una forte influenza sulla cultura e sulla società e per la sua grande forza espressiva è definita dall’autore “l’anima del XX secolo”, tanto da condizionare l’orientamento dell’arte contemporanea. La diretta televisiva, che costituisce la differenza sostanziale tra cinema e televisione, si realizza in tempo reale e vive una contemporaneità spazio temporale con il mondo reale, creando una relazione tra l’operatore e il fruitore che pone in comunicazione il mondo reale e quello mediatico su un’unica lunghezza d’onda. La diretta fa spettacolo e notizia e spesso la notizia fa spettacolo oltrepassando il limite della documentazione. Con l’11 settembre 2001 la diretta è diventata una “operazione artistica”; infatti, l’artista tedesco Wolfang Stehle aveva in quei giorni una personale in una galleria di New York, che si basava sulla ripresa indiretta dello skyline di Manhattan mediante webcam che inviavano le immagini alla galleria, proiettandole sulle pareti. Le webcam hanno ripreso casualmente l’attentato alle torri gemelle, poiché la ripresa interessava tutto l’orizzonte. Solo la diretta ha un valore artistico ed estetico afferma Senaldi, perché coinvolge lo spettatore come un’opera d’arte poiché si espleta in una realtà “spazio-tempo –culturale”. Inoltre,nel cinema lo spettatore viene coinvolto emotivamente e indotto alla riflessione; nel web il fruitore è attivamente impegnato perché altrimenti non ci sarebbe la messa in opera del mezzo; mentre nella programmazione televisiva il pubblico assimila passivamente i contenuti (quando ci sono?) perché non hanno mai un carattere di novità e non lasciano spazio alla riflessione in quanto puntano ad essere un prodotto di consumo. Lo spettacolo non coinvolge emotivamente poiché i soggetti stessi sono passivi e generano passività anche in chi osserva. “La televisione è considerata un mezzo inaccettabile per l’arte, perché non ha spazio per la sperimentazione ed è quindi un luogo sostanzialmente pericoloso, è un luogo dal quale bisogna sostanzialmente difendersi”. L’autore scrive che “il caso più vistoso…è quello di Andy Warhol e della sua Andy Warhol’s TV”per la sua unicità nel rapporto tra arte e televisione; l’artista vuole…impugnare il sistema televisivo da dentro, di farla come autore”. Anche il suo cinema “…è un cinema molto televisivo, molto freddo che mette in crisi le nozioni stesse della fruizione cinematografica”. “…Andy Warhol’s TV..è in sostanza un talk show dal quale Warhol stesso è simbolicamente assente. Quest’opera è chiaramente una ripresa del concetto di interpassività, perché è il classico talk show in cui non succede niente, anzi il titolo originariamente pensato da Warhol era Nothing special, in cui l’eccezionale dell’opera d’arte diventa quel “nulla di speciale”che è la televisione stessa, questo nulla che non si nota ma che domina le nostre vite”. Gli allestimenti degli spazi espositivi del Mambo creano una ambientazione ricercata ma non certo rassicurante, una inquietante sospensione in una atmosfera subcosciente dove la creatività rompe con gli schemi della logica tradizionale e di una estetica del bello. La quotidianità viene banalizzata e nello stesso tempo sublimata, attraverso una reinterpretazione formale e concettuale che spesso ha del nonsense verso chi la osserva. Le opere di Marcel Duchamp esprimono pienamente questo concetto e la sua “Roue de bicyclette”del 1913 è l’opera che apre la mostra. Essa poggia su uno sgabello bianco quasi fosse un simbolo di equilibrio e di eleganza, giocando sul contrasto cromatico tra bianco e nero, sulle diverse forme geometriche e sulla convergenza dei punti all’interno della circonferenza del cerchio e sulla divergenza delle linee delle gambe dello sgabello. Gli oggetti si vestono di un’aurea esistenzialista, trascendono dal loro ruolo e acquistano un significato più profondo in una metafisica del quotidiano: si pensi al “Porte-chapeau” del 1917 che, perdendo il suo significato nella realtà riscopre la sua forma, si pone all’attenzione come oggetto in sè; stesso discorso vale per lo “Scolabottiglie”del 1914, e per “Fountain”del 1964. Una serie di opere sviluppano la teoria del movimento, assioma della nuova società contemporanea, basata sulla velocità dei mezzi di comunicazione, sul dinamismo dei tempi di lavoro e sulla velocità relativa allo scorrere delle pellicole cinematografiche e del movimento in genere, di cui la fotografia coglie un momento. “L’Horloge”di Fernand Lèger del 1918 rappresenta proprio lo scorrere del tempo, il divenire incalzante della modernità che non lascia pause. Il “Raggismo”di Michail Larinov (1912-1913) esprime l’idea del movimento attraverso una serie di linee direzionali che disegnano lo spazio, creando uno sfondo indistinto in cui ciò che conta è il “traffico”di colori e il loro spostamento in asse e perpendicolare. L’idea del movimento non esprime solo velocità ed energia ed è spesso associato alla musica, alla sua fluttuante melodia e al rumore, quale sintomo dell’industrializzazione e del fragore dei mezzi di trasporto. Così come per la musica classica, anche per i suoni della modernità si cerca di unire contemporaneamente suoni diversi in accordi dissonanti, perché la disarmonia è il frutto dei tempi moderni. Nel campo visivo si parla di “arte dei rumori”e su questo filone si inserisce “La Musica”di Luigi Russolo; e “Pianoforte motorumorista”di Fortunato Depero del 1915. L’idea della sinfonia è legata anche al movimento, la linea grafica come accordo musicale che unisce il suono allo spostamento; si pensi al fotogramma tratto dalla “Symphonie diagonale”del 1924 di Viking Eggeling. Il movimento, associato alla leggerezza e all’armonia della musica, o al connubio tra velocità e rumore è espresso nelle opere di Giacomo Balla:”Fluidità di primavera”del 1917; “Linea di velocità + cielo + rumore”del 1913,e “Velocità + forma + colore”del 1915. Fortunato Depero realizza delle composizioni ad incastro di piani e sezioni, che richiamano gli ingranaggi di una macchina meccanica. In “Clavel nella funicolare”del 1918 l’omino in viola e la sua ombra si muovono con passo cadenzato scendendo giù per una scala che assomiglia ad un pezzo meccanico di qualche strano ingranaggio;la funicolare è un arcobaleno di colori contrastanti ma sapientemente accostati e un incastro di piani a cui sfugge ogni regola prospettica. La “Bambola blu” del 1917 assomiglia ad una giostra avveniristica; su uno spicchio di piano è poggiata una bambola realizzata ad incastri geometrici; la superficie del piano è oltrepassata da un bastoncino verde smeraldo e da una treccia bicolore verde e rossa. Anche qui, gli spazi sono campiture di colore delimitate da sezioni geometriche. Sempre Fortunato Depero sottolinea un aspetto caratterizzante nei suoi personaggi: la schiena curva che appesantisce la figura, come se sostenesse un peso fisico che invece non c’è, non è visibile; infatti, si tratta di un peso simbolico, il progresso, che ha costretto l’uomo a piegarsi dinanzi al potere schiacciante di una società che ha curvato la sua personalità, che ha schiacciato i suoi pensieri. Gobbo è Clavel dallo sguardo triste, alle cui spalle una sagoma arancione imponente potrebbe riferirsi alla figura di un padrone; ma curva, benché aerodinamica, è anche la scultura “Architettura di gobbo-Gilbert Clavel del 1917. La sublimazione del movimento si esprime nel fotodinamismo di Anton Giulio e Arturo Bragaglia, in “Mano in moto”del 1911 e in “La Gifle”del 1912,e in “Ritratto polifisionomico di Boccioni” del 1913. Anche la natura morta viene reinterpretata alla luce della nuova figurazione e si rappresenta per astrazioni e scomposizioni, come la “Natura morta con violino” di Georges Braque del 1913; e la “Nature morte”di Fernand Leger del 1924, un incastro di linee e di solidi quasi fossero dei pistoni, dipinti nei toni del grigio del nero, dell’ocra, del bordoux, del verde e del rosso. Accattivanti e di grande poesia sono le opere di Man Ray; si pensi al “Poème optique” (1924), un’opera d’arte espressa in versi, o se si preferisce un poema lirico cantato in un’opera d’arte, in cui la diversa lunghezza dei tratti di linea esprime la ritmica del verso. “Meret Oppenheim à la presse chez Louise Marcoussis” del 1933 è un’immagine alquanto surreale,pur nella sua normalità. Ciò che la rende inverosimile è lo strano personaggio con bombetta e con barba e baffi inconsueti e la figura di donna completamente nuda di straordinaria modernità; inoltre, la luce che la riflette sottolinea il biancore statuario del suo corpo che la avvicina moltissimo alle figure dall’incarnato molto chiaro della pittura fiamminga del passato, così come anche il pavimento a scacchi bianco e nero che, per quanto di grande modernità per l’epoca, richiama una tipologia in uso nei dipinti quattrocenteschi. Ancora di richiamo al passato ma secondo il gusto moderno del tempo è “Violon d’Ingres” (1924), una fantasiosa e allusiva reinterpretazione del nudo di Ingres. La fotografia è un altro degli aspetti fondanti dell’arte del XX secolo,l e cui ricerche hanno avvicinato sempre di più la fotografia all’arte. “Traffico moderno nell’antica Roma”del 1930 di Mario Bellusi è una riflessione sui grandi cambiamenti della società moderna rispetto alle pause che hanno caratterizzato le società del passato e che si presenta come una sovrapposizione di immagini di grande effetto, in cui tutto è sospeso in un equilibrio irreale, quasi a voler fermare un tempo che scorre veloce incurante del bisogno di riflessione degli uomini. “Le mani di Depero: chiarezza e volontà”(1930) è un’altra straordinaria interpretazion che va oltre la semplice riproduzione fotografica;l a gestualità delle mani esprime tutta la personalità del personaggio a cui appartengono; soltanto due mani su uno sfondo oscuro riescono a comunicare allo spettatore forza e volontà, determinazione e sicurezza, qualità che dovrebbero rappresentare, tra l’altro, l’uomo moderno. “Jazz band”(1930) ed “Io + gatto”(1932) di Wanda Wulz sono due immagini di grande creatività ed ironia. “Fotogramma pubblicitario di Berlino: Sinfonia di una grande città”(1927) di Walter Ruttmann penso abbia ispirato molte scene di film animati tra cui Spiderman e Barman con i loro voli tra i grattacieli nel cielo delle metropoli americane. “Spettralizzazione dell’io”(1931) di Maggiorino Gramaglia è una sintesi visiva tra immagine reale e spettro che accosta una immagine fotografica ad un negativo. “Musical Alchemy:The Soloist” (1930) riprende il concetto della musica come movimento in una foto che sovrappone in sequenza le immagini di un’azione, di un violoncellista che suona il suo strumento musicale. Luigi Veronesi associa la fotografia al concetto di spazio; il fotogramma, che rappresenta l’essenza della fotografia, registra la forma di un oggetto su una superficie fotosensibile che registra, a sua volta, luci e ombre quando l’oggetto viene illuminato. “Composizione”(1938) e “Fotogramma” (1936) sono uno studio di queste proiezioni. Sempre sulla sperimentazione fotografica si inseriscono le opere di Bruno Munari “Senza titolo”(1936) e “Negativo-positivo”(1950-1977);nella prima,la plasticità del corpo umano è rappresentata da un corpo disteso, quasi un modello per studi di anatomia e da una statua greca acefala, reinterpretata in chiave moderna nell’esasperato bilanciamento del corpo avvolto in un panneggio effetto bagnato di ascendenza classica; in questo equilibrio l’estensione della gamba protesa in avanti sottolinea l’incedere del passo quasi in una danza. La composizione è giocata sul contrasto tra la corporeità delle figure e l’immaterialità del cielo che fa da sfondo. Inoltre, le figure sono inserite all’interno di un campo visivo delimitato dall’incrocio di due diagonali che sono le parti metalliche che uniscono le ali di un vecchio aereo. Quest’ opera non è solo basata sul contrasto tra luci (i corpi) e ombre (lo sfondo del cielo) come in un fotogramma, ma anche sul significato simbolico della continuità temporale tra passato e presente,a cui,però,non corrisponde una continuità di valori estetici: la forma, nella sua perfezione plastica, si oppone alla tecnica con la sua logica funzionale, di cui l’aereo rappresenta il massimo risultato ingegnieristico. Ancora una volta passato e presente a confronto, massa e volumi contro la linea aerodinamica,l ’estetica contro la tecnologia e il progresso.“Negativo-positivo”, attraverso un minimalismo giocato sul contrasto cromatico tra il bianco come luce pura, del rosso come vitalità dell’immagine e del nero come negativo di un’immagine, riduce ad un quadrato il concetto del fotogramma e dell’arte fotografica. Due immagini completamente diverse che esprimono per figurazione e in forma minimale la stessa teoria, affermando l’importanza della fotografia nella riproducibilità artistica del soggetto. “Monocromo”di Yves Klein del 1957 rappresenta la libertà assoluta dell’artista che si esprime nel colore puro; il colore è la materializzazione della sensibilità di chi crea che solo in questo modo si libera da ogni condizionamento culturale e morale che, invece ,viene espresso dalle linee e dalle forme della composizione tradizionale. Yves Klein afferma che “L’arte di dipingere consiste…nel restituire la libertà allo stato primordiale della materia. Un quadro comune, inteso nella sua concezione generale,è come la finestra di un carcere in cui linee, contorni, forme e composizione sono determinati dalle sbarre. Le linee materializzano la nostra condizione di mortali, la nostra vita affettiva, il modo di ragionare, addirittura la nostra spiritualità. Sono i limiti psicologici che ci portiamo dentro…Il colore, invece, ha una dimensione naturale e umana, attinge a una sensibilità cosmica. …” Il colore si identifica con uno spazio assoluto sia fisico che interiore; il colore steso in maniera uniforme ,senza sfumature è l’unico elemento narrativo del quadro. Questo concetto di libertà assoluta è espresso anche in “Le saut dans le vide”del 1960, nel volo simbolico del protagonista in una interpretazione surrealista di uno scorcio urbano. “Yves Klein chef d’orchestre à Gelsenkirchen” (1950) ripropone il tema della libertà; unico protagonista della scena è l’autore visto di schiena mentre dirige un’orchestra fantasma. La sensazione di libertà è espressa attraverso l’ordinata simmetria delle parti, in una partecipazione corale del nulla; è nella sinfonia del silenzio che si celebra il rito della libertà, nella inesistenza della cose così come per il puro colore. La pittura elimina il segno e diventa colore; l’immagine elimina ogni presenza umana tranne quella dell’artista, unico protagonista e diventa pura emozione; l’emozione equivale al colore in una proporzione che ha come comune denominatore la sensibilità, il mondo interiore dell’artista che si libera nella materia e si fa cosmica. La sublimazione di questa esperienza è “Rèalisation d’une anthropomètrie (1960) in cui il colore si sovrappone alla materia, coprendo le forme di un corpo nudo di una donna ed esaltandosi come espressione di libertà e creatività. “Piero Manzoni con il prototipo del “placentarium” (1960) di Uliano Lucas è un inno alla creazione e all’origine della vita nella perfezione di un cerchio bianco. Piero Manzoni sperimenta delle creazioni, gli “achromes”di cui quello in esposizione è in cotone idrofilo; un altro “Achrome” in mostra è del 1962 ed è una creazione monocroma. Probabilmente c’era la volontà di realizzare delle creazioni libere, svincolate dalla costrizione di ornamenti e dall’impatto visivo del colore. “Le tombeau des lutteurs” (1960) di Renè Magritte, conosciuta anche con il titolo “Il canto d’amore” è un omaggio al quadro di De Chirico e raffigura una rosa ingrandita all’inverosimile costretta tra le pareti di una stanza, in una visione onirica. La rosa è tra l’altro, uno dei simboli di Venere e quindi dell’amore e qui c’è l’esasperazione della creazione nella esagerazione della sua forma; ’inconscio, la creatività si liberano non nella libertà della materia, attraverso la purezza del colore come in Yves Kline, ma nell’eccesso di materia che rappresenta una liberazione della fantasia. Sempre a proposito di visioni oniriche vi sono una serie di scatti di Philippe Halsman:Tippi Hedrem dal film Gli uccelli di Hitchcock (1949), e Alfred Hitchcock del 1963. Vi sono una serie di opere dedicate alla Pop Art americana, tra cui “Modern Painting in Enamel”(1967) di Roy Lichtenstein;”Nine Jackies”di Andy Warhol del 19642;”The Chelsea Girls” (1966),e “Empire”del 1964 sempre di Andy Warhol. Il quadro “Uomo di schiena”(1962) di Michelangelo Pistoletto fa parte di una serie detta “quadri specchianti” che creano una prospettiva retrovisiva in cui è coinvolto lo spettatore; i quadri si ricreano in base al movimento e in essi si introduce la dimensione temporale che entra a far parte di un gioco illusorio, teatrale. La mostra comprende anche una letteratura dell’arte, scritti, documenti, saggi, poesie e quant’altro si riferisce alle testimonianze che documentano il pensiero degli artisti in mostra. La tecnologia si fa arte e storia in una retrospettiva sugli strumenti cult del secolo scorso: dal cineproiettore Gaumont, al radioricevitore Marconi, al grammofono, al telefono in legno dei primi anni del secolo, al microfono Marconi, al magnetofono, al mangiadischi, al telefono sip bigrigio….sino al lettore CD e al lettore MP3. Inoltre,televisori e dischi in vinile sono usati per creare opere fantasiose come “La rivoluzione della televisione n.4” (1990) di Wolf Vostell e “Tv-schuhe”(1970), sempre dello stesso autore. Ancora, le opere dell’artista Nam June Paik: “TV Budda”(1990) e “Family of Robot,Aunt”(1986) e “Aria nera” di Rebecca Horn. Tra le opere esposte al piano superiore sono presenti un lavoro di Enzo Cucchi: “Fare un quadro”(1993), la “Martine”(1987) di Julian Schnabel, realizzata con colori e cocci di vecchie ceramiche riciclate; la curiosa interpretazione di Matthew Barney: “Cremaster 1:The Goodyear Waltz e lo “Study for Emergence”(2002) di Bill Viola, una provocatoria allusione all’emergenza di intervento sull’uomo moderno, dipinto a calce come fosse un marmo dell’antichità. Molto interessante è la sezione dedicata alle opere del nuovo millennio; le maternità di Vanessa Beecroft VBSS 009 MP, Black Madonna with Twins (Left), 2006,che si ispira alle madonne in trono dell’antichità, in una posizione frontale, avvolta completamente in un drappo rosso regale. VBSS 002 MP, White Madonna with Twins, 2006 richiama la composizione triangolare delle iconografie antiche, benché allatti due gemelli neri. La modernità dell’impostazione sta nell’atto di allattare due gemelli e in quel non so che di dissacrante che avvolge la loro immagine: dalla rigidità delle mani, all’abito bruciato giù all’orlo. I dipinti di Gregory Crewdson, Untiteled (Beneath the Roses) (2003) e Untitled (Beneath the Roses) (2005) sembrano uscite da una pellicola cinematografica di un film americano. Le due immagini di Vik Muniz sono fotografie tratte dall’alto di disegni realizzati usando materiale di risulta, un genere che ha fatto la fortuna di molti artisti da strada.
BIBLIOGRAFIA: Catalogo della mostra Skira editore.
A cura di Germano Celant con Gianfranco Maraniello
MUSEO GIORGIO MORANDI



di Antonella Colaninno

In occasione del mio prossimo viaggio a Bologna, città che amo molto e che con piacere riscopro ogni volta nel fascino dei suoi portici affrescati e della sua cultura antica, vorrei dedicare un omaggio a Giorgio Morandi (1890-1964), pittore-poeta del nostro tempo, a cui la città di Bologna ha donato un Museo in Piazza Maggiore negli spazi di Palazzo d’Accursio. Un Museo relativamente recente, che Bologna ha inaugurato il 4 ottobre 1993 e che è stato istituito grazie alla donazione di Maria Teresa Morandi, sorella dell’artista. Il patrimonio del Museo comprende una serie di opere tra dipinti, acquerelli, disegni, acqueforti, lastre incise su rame e sculture, oltre agli arredi, agli oggetti dello studio dell’artista e alle opere della sua collezione. Il lascito si arricchisce anche di carteggi, fondi fotografici e di circa seicento volumi della sua biblioteca. All’interno del museo è stata allestita una stanza che rievoca l’ambiente in cui l’artista viveva e lavorava, dipingendo nature morte nelle quali gli oggetti assumono una anima propria capace di emozionare profondamente chi le osserva. Attraversando le sale espositive si viene affascinati dalla dolcezza delle immagini, sospese in un tempo che appartiene al loro esistere, alla memoria e all'intimità del mistero che si nasconde in ogni singolo oggetto e che si rivela nell’incontro con la luce. Essa infatti, ammorbidisce la materia, la rende fragile, rende tremulo il contorno e gli oggetti acquistano una dimensione metafisica che va oltre il tempo. Una metafisica del quotidiano che trasforma semplici oggetti in simboli di un vissuto. L’uso di pochi colori e l’inconsistenza della forma non permette agli oggetti di staccarsi dal fondo perchè essi sono vissuti, amati, fanno parte dell’intimità più profonda dell’artista. La collezione comprende nature morte, paesaggi e fiori; il museo ospita anche ventidue dipinti della collezione Ingrao, acquistati nel 1985 dal Comune di Bologna per il futuro polo museale. Le opere della raccolta di Francesco Paolo Ingrao (1909-1999) furono scelte dallo stesso Morandi tra il 1947 ed il 1963. Le opere sono senza cornice e sono state disposte nello stesso ordine che avevano sulle pareti di casa Ingrao e che fu voluto dall’artista secondo criteri di armonia. Fu una vendita sofferta per il profondo legame affettivo che lo legava a Morandi, alla sensibilità di questo grande artista solitario e introverso.













domenica 19 settembre 2010

HIROSHIGE IL MAESTRO DELLA NATURA



di Antonella Colaninno


Hiroshige dedicò la sua carriera artistica al tema del paesaggio e fu definito“the artist of mist, snow and rain" da Mary McNeil Fenollosa, moglie del primo specialista di arte giapponese Ernest Fenollosa, per il suo talento nel rendere le atmosfere delle stagioni, e dunque tutta quella fenomenologia legata all'alternarsi del ciclo stagionale. Nell’estetica giapponese, la presenza umana si inserisce con le sue architetture nel contesto paesaggistico e viene rappresentata all’interno di quella particolare asimmetria di composizione scenica che caratterizza l’arte giapponese, basata sul principio di armonia e di compenetrazione tra l'uomo e la natura. La figura umana assume una presenza marginale nel paesaggio e nel giardino giapponese che è naturocentrico. Infatti, nella filosofia buddhista, come nella dottrina religiosa dello Shintoismo, l’uomo non prevarica la natura, diversamente da quanto accade nel pensiero cristiano, dove, invece, l’uomo entra in rottura con la stessa nel giardino dell’Eden, perdendo qui la sua purezza di essere creato a immagine e somiglianza di Dio, sporcandosi del peccato originale. Nella filosofia giapponese c'è la visione di un cosmo unitario, non c’è, infatti, un Dio creatore, ma una energia universale che genera due forze distinte, dalla cui interazione si creano gli elementi naturali, tra cui anche l’uomo. L’armonia tra gli elementi raggiunge la massima espressione nel giardino, che diventa luogo ideale di questa esperienza spirituale ed estetica assoluta. Nella sua rappresentazione c’è un senso di quiete e di sospensione, e, al suo interno, le figure non assumono un ruolo rilevante e si integrano pienamente al contesto naturale, poiché ogni elemento risale al principio unitario, e nulla ha un senso se non nella dialettica del diverso. La cultura giapponese fa riferimento alla filosofia come esperienza assoluta di vita, e nell'arte di Hiroshige questa profondità di pensiero trova una sua esemplificazione, una sua sintesi. La popolarità del maestro giapponese fu tale che le sue illustrazioni furono riprodotte in moltissimi esemplari, per far fronte alla crescente richiesta di mercato. Inoltre, le sue stampe di paesaggi trovarono grande diffusione anche con lo sviluppo dei pellegrinaggi verso le mete di culto scintoiste e buddiste. La crescente trafficabilità degli itinerari coincise, infatti, con l’aumento della diffusione di queste stampe che ritraevano i luoghi della spiritualità. Le illustrazioni di Hiroshige tendono a sconfinare in una dimensione ideale. Questo particolare aspetto caratterizza la tradizione figurativa giapponese che si ispira all’arte classica e alla sua dimensione puramente ideale. Anche il movimento e il colore si compenetrano in questo gioco della diversità, dando vita a composizioni di rara eleganza, come Luna piena su Takanawa (della serie Vedute famose della capitale orientale, 1831-1832), La luna vista attraverso le foglie d’acero (della serie Tra le ventotto visioni della luna, 1832); e Paesaggio intorno al monte Kano nella provincia di Kazusa (1848-1854). Hiroshige è considerato uno tra i maggiori rappresentanti dell’Ukiyo-e, un genere artistico molto amato dagli impressionisti, nato nel XVII secolo ed esauritosi nel XIX, un genere tutt'altro che popolare, che si ispirava alla società urbana del tempo e ai piaceri mondani e che trovò diffusione attraverso la stampa seriale. Oltre al genere di paesaggio, Hirosighe si dedicò anche a un tipo di pittura ispirata al mondo faunistico e floristico, il genere della kacho-e. Realizzò circa duecento Kacho-e di formato lungo e stretto, di rara eleganza e poesia. Questa profondità di sentimento del maestro giapponese si traduce, tecnicamente, nella leggerezza del disegno in negativo di alcuni elementi che contrastano con le zone luminose e creano, a livello percettivo, una intensa e commossa partecipazione sensoriale. A partire dagli anni ’40-’50 dell’Ottocento, Hirosighe dedicò maggiore attenzione alla figura umana, in particolare alla grazia della figura femminile. L’uso della linea sinuosa si fa più intensa e l’atmosfera di pace è resa pittoricamente attraverso l'elemento luminoso, sia nel chiarore delle vedute diurne, in opere quali: Amashinoda nella provincia di Tango e Sazaki e la piana di Jumantsubo presso Fukagawa (1857), e sia nella profondità delle visioni notturne in Veduta notturna di Saruwakacho (1856) e La strada di Saruwakacho.

Pubblicato da Antonella Colaninno 



DAI TRALCI DI VITE AI BOCCALI DI...VINI
PUGLIA FRA PASSATO E PRESENTE



di Antonella Colaninno


Il vino è considerato da sempre il nettare degli dei. La leggenda racconta che Dioniso, figlio di Zeus e Semele donò “…ai mortali il nettare che porta l’oblio”. La vite ha una storia molto antica, pare risalga a trecentomila anni fa, una pianta che cresceva spontanea nei boschi; da secoli essa è un tema ricorrente nelle iconografie e nelle varie fonti; la troviamo citata nell’Antico e nel Nuovo Testamento e lo stesso libro della Genesi attribuisce l’arte della viticoltura a Noè il quale pianta la vite inebriandosene poi, quando termina il Diluvio universale. La coltura della vite sarà introdotta nel bacino del Mediterraneo ed entrerà così, nel mito e nella cultura greca come bevanda afrodisiaca legata al culto del simposio e dell’amore; ma la sua tradizione è antica di millenni, la vite era già conosciuta in Età neolitica (9000-8000 a. C.) e la sua coltura fu praticata anche dagli Egizi. La filosofia antica ci racconta attraverso il pensiero di Senofonte, Aristotele, e Platone che nel simposio il vino aveva un ruolo importante, perché era capace di inebriare fino a provocare trasgressioni se bevuto in grandi quantità. Il bere si legava ad una ritualità sacra, connessa alle divinità di Demetra, Dioniso, e Afrodite, una vera arte che si univa ai piaceri del cibo e alle gioie dell’amore. Oltre al mito, troviamo riferimenti alla pratica della vendemmia ne “Le opere e giorni”di Esiodo, e molte sono anche le citazioni presenti in Omero, nell’Iliade e nell’Odissea. Dalla Grecia la coltura della vite raggiunse la nostra penisola trapiantandosi specie al sud, territorio ideale per il suo clima mite e diventò commercio primario dell’economia. La letteratura latina dedica pagine bellissime al vino come rimedio per gli affanni (Properzio) e alla viticoltura connessa alla conoscenza geologica del territorio e al principio che “l’agricoltore al profitto debba unire il gusto estetico”(M. Terenzio Marrone 116-27 a. C.), mentre secoli prima Platone (427-347 a. C.) consigliava il vino “come alleato per combattere la malinconia”. Con la fine dell’Impero romano nel 476, e ancor prima con l’avvento del Cristianesimo, il vino si veste di nuovi significati simbolici come sangue di Cristo, emblema di salvezza; l’economia, devastata dalle invasioni barbariche, si ricostruisce a partire dal VI secolo intorno all’attività dei monasteri, che diventano le nuove cellule dell’economia medioevale. Il tralcio di vite è presente come motivo decorativo nelle architetture e in molti codici miniati; tra le testimonianze artistiche pugliesi, il tema della vendemmia rappresenta un elemento importante nel mosaico pavimentale della cattedrale di Otranto. A partire dal Cinquecento, l’uva sarà un tema ricorrente in molte nature morte. La mostra Dai tralci di vite ai boccali di...vini. Puglia tra passato e presente, curata da Elio Scarciglia e Michela Tocci allestita presso il Museo Civico di Bari nel 2008, ha illustrato attraverso testimonianze di cultura materiale la storia del vino e dell’estetica dei materiali ad esso connessi, compresi tra il VI secolo a. C. e i primi decenni del Novecento, privilegiando nella scelta i contenitori da vino in ceramica; una scelta questa non casuale, che si lega ad una tradizione importante nell’artigianato pugliese. Inoltre, il percorso espositivo ha accompagnato il visitatore in un viaggio tra le diverse culture alimentari che sono espressione di uno specifico contesto sociale. Il cibo si lega ad una vera e propria ritualità, fatta di comportamenti, abitudini, in cui gli oggetti da mensa investono un ruolo importante come testimonianza di un preciso periodo storico, mentre il banchetto sottolinea un momento di socialità, in cui la pratica del cibo si unisce al consumo del vino e all’ascolto della musica e della recitazione di poesie. Le prime tipologie ceramiche sono legate alla pratica del banchetto e del simposio e provengono dai siti di Egnazia (Br), di Rudiae(Le), Ruvo e Canosa; sono suddivise tra crateri, kantharos, rython, skyphos…e riportano disegni di scene di banchetti, di pigiatura dell’uva e figure di Dioniso ebbro. Da questi primi esemplari si passa poi ad altri manufatti di epoca successiva, come i boccali che avevano l’uso di contenitore e di unità di misura esclusivamente per il vino; questa funzione li differenzia dall’orciuolo, il cui uso non era solo di tipo alimentare, come si attesta da un documento napoletano datato 1313. I boccali in esposizione comprendono un arco cronologico che va dal XIII al XVIII secolo e sono relativi a diverse aree geografiche tra cui il sito di Castel Fiorentino, con esempi di ceramiche a bocca circolare e trilobata a disegni naturalistici e a soggetto geometrico di tradizione islamica. Altri esemplari provengono dalle fornaci di Viterbo, di Faenza e di Castel Nuovo e sono databili alla metà del XV secolo; essi uniscono all’elemento vegetale il profilo di una figura femminile. Alle fornaci di Casalnuovo (Manduria) e di Cutrofiano (Lecce) appartengono due esemplari di XVI secolo con decorazione ad elementi floreali e fitomorfi stilizzati. Alle fornaci di Laterza si riferiscono invece, un gruppo di ceramiche databili ai secoli XVII e XVIII con decoro in bianco e blu, tra cui due boccali con motivo geometrico e con profilo di un frate entrambi chiusi in un clipeo; un boccale con disegno della Madonna della Scala e motivo apotropaico; un’anfora biansata con il motivo del Leone rampante e tre bottiglie decorate in blu con disegni di paesaggio, di garofani e con pavone. Tre boccali trilobati rispettivamente di XVIII e di XX secolo sono stati realizzati nelle fornaci di Grottaglie e presentano motivi fitomorfici e geometrici stilizzati; infine, un esemplare di bottiglia a forma di donna con smalti blu e ocra proviene dal Museo Pomarici Santomasi di Gravina ed è stata realizzata nelle fornaci di Ariano Irpino in XIX secolo. Particolare attenzione è stata dedicata alla ceramica tradizionale e agli orciuoli di Grottaglie detti “li sruli”. Tra questi una serie di fiasche, di brocche e di bottiglie “a segreto”, con delicati decori in blu, verdi e ocra; di particolare rilievo sono i decori con putti e paesaggio di una brocca a segreto di XVIII secolo, realizzata nelle fornaci di Faenza e un esemplare di brocca a segreto con mottetto popolare, proveniente dal Museo Sigismondo Castromediano di Lecce, realizzata intorno al 1750 nelle fornaci di San Pietro in Lama. Di pregevole fattura sono invece, due manufatti realizzati nelle fornaci di Grottaglie; un boccale a segreto di fine XX secolo, con collo traforato a motivo floreale e una “vozza a bicchiere”di fine XIX secolo. Sempre da Grottaglie provengono una serie di ceramiche di XIX e XX secolo, tra cui un “quartarone” invetriato verde; un “cacabuzzulu” e una “buttija a pupa”. L’ultima sezione è dedicata a “li sruli”, cioè le tipiche ceramiche di Grottaglie, orciuoli trilobati con classico decoro ad orlo in ocra e blu disegnato all’esterno della bocca con motivo a fiore stilizzato che caratterizza le ceramiche di questa zona; soggetti floreali e personaggi in costume popolare arricchiscono le superfici di questi tradizionali oggetti dell’artigianato locale.

BIBLIOGRAFIA: catalogo della mostra - Mario Adda Editore

lunedì 13 settembre 2010

PIACENZA, CITTA' DELLE CHIESE


di Antonella Colaninno
Cari amici e lettori di questo blog, vorrei scrivere qualche rigo per denunciare le tante violenze subite dal nostro patrimonio storico artistico che offendono la nostra dignità di essere italiani. L’Italia detiene il primato mondiale per numero di beni culturali presenti sul nostro territorio che testimonia la ricchezza della storia del nostro Paese e che ogni anno consente al nostro turismo culturale di portare l’immagine dell’Italia in giro per il mondo. Una presenza altissima di cultura a cui non corrisponde un adeguato senso civico e morale verso un patrimonio sempre più a rischio. E se è pur vero che molti luoghi d’arte rinascono grazie ai restauri e alla collaborazione di istituzioni e società bancarie, tanti altri vengono lasciati morire, offesi dal disprezzo e dall’indifferenza. Scempi urbanistici che abbattono antiche strutture per speculare su un mercato immobiliare in crisi a causa delle carenze di suoli per le tante beghe politiche che bloccano i piani regolatori. Chiese e monasteri che necessitano di restauro e persino di essere riconosciuti come aree di interesse storico artistico, e aree archeologiche che passano sotto l’indifferenza delle istituzioni e delle soprintendenze. Per non parlare dei privati cittadini che si impossessano abusivamente di ruderi, riconosciuti già in quanto tali, affascinanti testimonianze storico artistiche, apportando restauri arbitrari ignari di qualsiasi nozione sulla storia e sulle tecniche del restauro. Qui su pubblico una foto concessa dall’amico architetto Carlo Alberto Garioni a testimonianza di quanto apertamente denunciato.
Mi auguro che questa lettera possa raggiungere la sensibilità di tutti coloro che con orgoglio sentono di essere italiani e che rivendicano l’appartenenza al proprio passato nel rispetto di tutte le testimonianze storico artistiche presenti nel nostro territorio.

domenica 12 settembre 2010

QUANDO IL RESTAURO INVESTE SULLA CULTURA


di Antonella Colaninno


Si avverte un senso di benessere quando si leggono notizie in merito all’ampliamento degli spazi espositivi dei musei, o quando interventi di restauro riconsegnano all’umanità la storia di secoli di vite e accadimenti. Grazie alla partecipazione di banche e fondazioni i tesori dell’arte italiana ritornano ai loro vecchi splendori. La Galleria nazionale di Cosenza ha aperto nuovi spazi espositivi per ospitare i trentotto capolavori della collezione della Banca Carime ora donati al Ministero per i beni e le attività culturali tra cui opere d’arte italiana come il Cristo al Calvario e il Cireneo, attribuito a Giovanni Bellini, e opere di Matteo Crespi, Luca Giordano e Umberto Boccioni. Il Museo archeologico nazionale di Ferrara ha ampliato gli spazi della propria sede nel cinquecentesco Palazzo Costabili, progettato da Biagio Rossetti. Importanti lavori di restauro sono stati avviati anche al Museo egizio di Torino, ora Fondazione museo delle antichità egizie. Nel 2013 si concluderanno i lavori di restauro finanziati dalla Compagnia di San Paolo e dalla Fondazione Cassa di risparmio di Torino. Il Museo leonardiano di Vinci (Firenze) nel castello dei conti Guidi riapre dopo un importante intervento di restauro riproponendo al pubblico un’ interessante collezione di macchine ispirate ai disegni del genio del Rinascimento italiano. Infine, continuano gli interventi di restauro di Palazzo ducale a Venezia iniziati nel 2007 e finanziati dal Comune sotto la direzione dell'architetto Daniela Andreozzi che hanno migliorato lo stato delle superfici esterne intaccate da patine e da muffe. Pulitura e consolidamento strutturale delle parti daranno nuovo splendore ad una delle architetture più rappresentative del gotico veneziano.