Nudo di donna EGON SCHIELE















lunedì 22 dicembre 2014

LA FOTOGRAFIA: ILLUSIONE O RIVELAZIONE? CLAUDIO MARRA E LA FOTOGRAFIA COME RIVELAZIONE






Storicamente la fotografia ha avuto i suoi movimenti di rottura col passato e ne sono conseguite conquiste di linguaggio in alcuni casi grandissime, nessuno ha però in se stesso preso il nome di avanguardia, come avanguardia fotografica è la stessa che spezza la storia della espressione in un prima e in un dopo senza reversione possibile. E’ questa la base di giudizio di tutte le avanguardie fotografiche. R. Chini,Il linguaggio fotografico, Torino, 1968

di Antonella Colaninno

Del saggio “La fotografia: illusione o rivelazione?” è stata esposta all’attenzione dei lettori la riflessione critica di Francesca Alinovi, che rappresenta la prima parte di questo lavoro scritto a quattro mani. L’analisi di Alinovi si è soffermata su quegli aspetti della fotografia legati alla dimensione del sogno e dell’evasione, da se stessi e dal mondo, alla ricerca di quella illusione che,  attraverso l’artificio, porta la fotografia ad essere nel mezzo tra scienza e fantasia. La seconda parte del saggio critico svolta da Claudio Marra intende, invece, affermare l’idea della fotografia come pura rivelazione. La “rivelazione” è quella “pratica che si rivolge alle cose per indirizzarle alla nostra attenzione”. L’identità della fotografia, spiega Claudio Marra, è un fatto culturale e non puramente meccanico del mezzo fotografico. Il nostro studioso pone in relazione la fotografia e la rivelazione con il cinema, la filosofia, la letteratura e la psicanalisi. In ambito letterario la scrittura di Marcel Proust mostra “una continua tensione al disvelamento e alla rivelazione delle cose”; il suo occhio si trasforma “in sguardo disvelatore capace di frantumare, o comunque portare ad evidenza, i vari abiti nei quali, di volta in volta, le cose ci appaiono”. La letteratura, si pensi a Pirandello ad esempio, allo stesso modo della macchina fotografica, “mette a nudo fatti e persone, li strania rivelandone la goffaggine, rende gli uomini consapevoli della finzione dietro la quale, normalmente, si celano”. Negli studi sulla psicanalisi è Freud in persona ad affermare nei suoi scritti che “la fotografia, o meglio, la pratica del fotografare, è qualcosa di molto vicino, per modello di funzionamento, ai meccanismi che regolano la nostra vita psichica”, perché l’oggetto si rivela e diventa parte del nostro mondo. Anche il cinema diventa uno strumento “per prolungare questo incontro rivelativo” col mondo, e la filosofia come il cinema, contribuisce a questo percorso di conoscenza, “perché riflessione e lavoro tecnico procedono nello stesso senso”. Sarà il Novecento a correre “sulla strada della rivelazione” e se l’Ottocento “presenta interessanti casi di poetiche della rivelazione”, questi possono  considerarsi solo casi isolati. Claudio Marra, nel suo saggio, considera Alfred Stieglitz l’interprete “del senso di un’epoca, di tutta una visione del mondo”, e per questo la storiografia fotografica è d’accordo nel considerarlo “il padre della fotografia moderna”. L'istantaneità è quella “pratica diretta verso le cose, come rifiuto della finzione, come volontà di relazionarsi al mondo” che “si presenta non tanto come specifico fotografico, ma piuttosto come specifico culturale che Stieglitz prontamente intuisce e fa suo”. L’atto del fotografare rappresenta “l’autoaffermazione del soggetto nei confronti del del mondo” mentre la tecnologia ha il potere di svelare la verità e di rivendicare la fisicità delle cose.                                                                                                                         

Per Stieglitz la rivelazione è un fatto estetico, fatto di relazioni, equilibrio e conoscenza, che implica, necessariamente, la necessità di individuare e circoscrivere le cose stesse, recuperandole da quel caos di rapporti che caratterizza solitamente il mondo”. Se Stieglitz lavora sull’isolamento e sulla istantaneità, Lewis Hine e August Sander preferiscono rivolgersi ad un processo di schedatura della realtà. Una  poetica che rappresenta, tutto sommato, un modo per filtrare la realtà, per conoscerla. che acquisirà dei risvolti antropologici nella fotografia di ambito criminale.
In Sander tale poetica raggiunge, inconsapevolmente, un valore sociale nella pura “manifestazione di archetipi culturali”, non a caso “Sander, scrive Marra, fotografava per stereotipi, annullando completamente il dato psicologico individuale”.
Nella fotografia di Atget la rivelazione si manifesta verso quegli aspetti che  il nostro occhio considera di per sé apparentemente inutili. Ciò che ci appare insignificante prende ad un tratto rilevanza, e ci appare  nella “folgorazione dell’istante” come una magica epifania. Atget rappresenta quel “filone della rivelazione […] che trova nella fenomenologia uno dei suoi punti di maggiore forza”. Nelle sue foto manca l’elemento umano e “le cose vi dominano solitarie ed assolute” non prive di quell’elemento psicologico che si manifesta nella loro rivelazione. Le fotografie di Atget furono punto di osservazione per surrealisti e dadaisti che lavorarono sul  valore del nonsense dell’oggetto,  banalizzandolo e decontestualizzandolo.
Anche per Freud, scrive Marra, “l’inutile, il secondario, viene ampiamente riscattato come strumento per accedere all’inconscio e alla sua articolazione”. Il dinamismo e la velocità dei tempi moderni così cari al Futurismo, trovarono un’eco nel fotodinamismo fotografico di Anton Giulio Bragaglia. “In Bragaglia c’è infatti da un lato, l’intenzione di condurre un’indagine rigorosa sul movimento dei corpi e sugli effetti che ne derivano, e dall’altra, […] quella di cogliere lo “spirito della realtà viva” così da “rendere ciò che superficialmente non si vede””. Un recupero, quindi, della spiritualità attraverso la “smaterializzazione dei corpi” che cerca di “giungere all’essenza e allo spirito delle cose”, oltre a  ricercare un punto di equilibrio con gli aspetti strettamente scientifici del mezzo fotografico. 
Diversamente accade per la poetica di Man Ray. La pittura è considerata un fatto intimo e la fotografia un fatto pubblico. In Man Ray ciò che conta davvero non è il mezzo fotografico, ma “l’idea che guida il lavoro dell’artista”, per cui “l’idea che viene stimolata dall’immagine prevale nettamente su quello che è il semplice dato oggettuale”. In Man Ray “si manifesta apertamente l’uso concettuale della fotografia” “il gesto fotografico non avanza infatti nessuna pretesa circa un’eventuale autonomia formale dell’immagine, ma si dichiara subito, e apertamente, gesto affettivo e di conservazione”. I suoi Rayographs  sono paragonati alla scrittura automatica dei surrealisti “luogo della casualità e pratica dell’inconscio per eccellenza”.
Con Moholy-Nagy “profeta del post modernismo” si assiste invece, al recupero del primato della tecnologia. Nella sua rivoluzione estetica,  che affida alla vista il primato della sensorialità, “le macchine hanno preso il posto dello spiritualismo trascendentale”, perché “la tecnologia ha un’anima”, “è lo spirito che anima la tecnologia” . E’ possibile “ rendere visibile, attraverso la macchina fotografica, cose che l’occhio umano non è in grado di afferrare o di percepire” e “la macchina fotografica può perfezionare o integrare il nostro strumento ottico: l’occhio”. I fotomontaggi di John Heartfield sono veri lavori pittorici legati all’idea di movimento. Il  valore compositivo è costruito sulla scomposizione e ricostruzione dell’immagine che porta 
 la fotografia ad essere un’identità labile che oscilla tra finzione e rivelazione. Allo stesso modo possiamo considerare gli specchi di Florence Henri che giocano sul senso dello sdoppiamento e del corrispettivo opposto del doppio. “Il piano e la profondità si spezzano dando vita ad arditissime combinazioni di angoli, gli oggetti riflessi non appaiono sempre nitidi e precisi ma spesso acquistano una patina di suggestione e di mistero […]”. “Lo specchio, scrive Claudio Marra, è una sorta di macchina fotografica imperfetta, che non sa trattenere le immagini.” 
In un interessante capitolo sul realismo, l'autore riflette sul valore storico dell’idea di realismo che non può essere considerato in modo unilaterale ma solo come concetto relativo che necessita di essere visto ed interpretato alla luce del proprio contesto storico di riferimento. Per questa ragione, anche il fotodinamismo di Bragaglia è da considerarsi una forma di realismo, alla luce del fatto che i futuristi consideravano il movimento come una realtà o, "ancora più drasticamente, come l’essenza della realtà”. Marra parla delle due strade del realismo: l’una coglie “il momento decisivo”, “l’attimo fuggente da bloccare, in lotta contro l’inesorabilità del tempo; e l’altra, quella del così detto “tempo lungo”, “dell’eternità congelata” e prolungata all’infinito. Nell’ambito di queste categorie si inserisce la poetica di di Erich Salomon che “eleva il fatto normale-banale a fatto degno di considerazione.”
Per commentare la fotografia di Brassai, Claudio Marra ricorre al pensiero di Marshall McLuhan, alla sua “immagine del mondo dell’era fotografica come di un bordello senza muri”, “che non custodisce più gelosamente i propri vizi, ma invece li trasforma in oggetti da vetrina, posti affettuosamente a disposizione di tutti”.  Sia le immagini della Parigi notturna che i Graffiti incisi sui muri della città fotografati dal nostro artista, “possono essere ricondotti  ad un’idea di rivelazione e ”fanno parte “di un’indagine rivelativa che affonda, anche se per itinerari differenti, su un unico oggetto, la città intesa come groviglio e deposito di esperienze, come accumulo di indizi da ricercare e svelare”. 
In bilico tra istantaneità e congelamento, Brassai afferma che “la realtà spinta all’estremo fa capo all’irrealtà” e che “andare dritti alle cose significa accertarne la magia”. Scrive ancora Marra: “se per Stieglitz, la fotografia rappresenta il mezzo per riscattare poeticamente la bassezza e la volgarità delle cose, dall’altro, per Brassai, c’è invece un vero e proprio compiacimento nell’affondare lo sguardo in ciò che di più sordido la città offre durante la notte”. “I veri nottambuli vivono la notte non per necessità ma per gusto, per tendenza innata. Appartengono al mondo del piacere, dell’amore, del vizio, del crimine, della droga…io avevo fretta di entrare in quest’altro mondo ai margini del nostro”. La fotografia per Brassai diventa la voce di una coscienza collettiva che ci proietta “direttamente in mezzo alle cose”. Per Henri Cartier-Bresson l’istantaneità rappresenta, invece, l’opportunità per entrare in relazione col mondo. La scelta, condivisa con la fondazione dell’agenzia Magnum, di acquisire la proprietà dei propri negativi diventa “metafora del passaggio dall’idea moderna di possesso della cosa a quella post moderna di controllo sull’informazione e sulla circolazione del prodotto”, in anni in cui l’informazione giornalistica, documentata dal reportage giornalistico, lascia il posto all’informazione televisiva che porterà, come conseguenza, alla chiusura di molte testate tra cui la rivista Life. 
Sia per Ansel Adams che per Diane Arbus la fotografia rappresenta, inoltre, un importante strumento di apertura al mondo esterno, un modo “per tornare a sentire la vita, per immergersi in essa” accettando il caos e la sua “violazione della norma”. I ritratti della Arbus sono i “nostri mostri quotidiani”, nani e soggetti mongoloidi sono i mostri “naturali” a cui si aggiungono i  mostri “culturali” per i modi diversamente normali di vestirsi e di comportarsi. Questi mostri sono “persone che avendo accantonato la paura e l’angoscia per qualcosa di traumatico che da un giorno all’altro potrebbe accadere, possono permettersi di guardare la vita con distacco”. Rivelazione per la Arbus significa “infrangere il muro delle apparenze e tentare di avvicinarsi all’essenza della realtà”
L’ultimo capitolo del saggio di Marra si interroga sul cammino della fotografia verso un processo di normalizzazione della propria ricerca che, partendo dagli inizi del Novecento, si conclude negli anni sessanta e settanta con un approccio di tipo estetico nell’acquisizione dell’immagine e della sua rivelazione. Per Marra la fotografia ha influenzato avanguardie artistiche come la Pop Art che attinse dalla fotografia la frontalità dell’oggetto e la ripetitività di rappresentazione, oltre alla poetica dell’isolamento e dell’ingrandimento degli oggetti che si fanno, in questo modo, rivelativi del proprio straniamento. L’immagine, infatti, acquisisce valore in sé ma perde di identità, acquista un valore oggettuale nella ripetizione di se stessa. Le più recenti conquiste della fotografia si proiettano sul prolungamento della sensorialità e sulla dilatazione mentale, come il caso di Patella che si propone non di rappresentare l’inconscio quanto piuttosto di “proiettarvisi dentro”. Dalla sfera del concettuale la fotografia si introduce nel campo della Body Art, entra in relazione con il nostro corpo, e rivolge il proprio sguardo meccanico verso la persona, cercando di affermare la propria presenza nel mondo. La fotografia giunge ad immolare la banalità e l’apparente inutilità della gestualità e “il riscatto della banalità, del quotidiano, dell’inutile, raggiunge il massimo dell’effetto con le ricerche della Narrative Art”  perché rivelazione significa anche saper “vedere, con occhi diversi, particolari insignificanti, tanto da estrarre conseguenze sorprendenti da minime tracce”. Un po’ come accadde nel lavoro di Franco Vaccari presentato alla Biennale del ’72 dal titolo “Lasciate una traccia del vostro passaggio” in cui i soggetti delle fototessera lasciano trasparire nell'istantanea un’immagine di sé diversa rispetto a quella tradizionale. Vaccari ha così realizzato la sua “poetica della traccia”, “una fotografia che è azione, che vale nel suo svolgersi” che supera l’idea stessa di staticità dell’immagine. Accanto alla nozione di “tempo reale” scrive Marra, “c’è, per esempio, da segnalare quella di “inconscio tecnologico”, nozione tipicamente mcluhaniana che Vaccari, con buon tempismo, sa cogliere in tutte le sue conseguenze”. 

Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Claudio Marra; Fotografia; illusione o rivelazione? di Alinovi-Marra; A.Stieglitz, “Ritratto di Georgia O’Keeffe”, 1919; Lewis Hine, “Cigarmakers, 1909; August Sander; Atget, “Boulevard de Strasbourg, Corsets”, Paris, 1912; Anton Giulio Bragaglia, “Type writer”, 1911; Man Ray, “Lee Miller”; John Heartfield; Florence Henri; Erich Salomon; Brassai, “Chaze-suzy”, 1932;H,Cartier Bresson, “Julien Gracq”, France, 1984; Diane Arbus; Franco Vaccari.


CLAUDIO MARRA
Laureato in Estetica nel 1976 con una tesi a titolo "Teoria e pratica della fotografia nelle avanguardie storiche". Dal 1983 al 1999 ha insegnato Fotografia nelle Accademie di Belle Arti, a Ravenna, Firenze e Bologna. Dal 1997 al 2000 è stato Professore a Contratto di Storia della fotografia presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Bologna, dove, dall'A.A. 2001/02, è Professore Associato confermato. Insegna anche presso la Scuola di Specializzazione in Beni Storici Artistici della stessa Università.
La sua attenzione storico-teorica è in particolare rivolta al problema della collocazione della fotografia in una più organica prospettiva di estetica generale, nonché ai rapporti che intercorrono tra ricerca fotografica e arti visive.
Oltre all'attività di ricerca svolge un'ampia attività critica rivolta sia al versante storico sia a quello di una più stretta contemporaneità, come testimoniano le molte collaborazioni con il Mambo (Museo Arte Moderna di Bologna), con altre importanti istituzioni pubbliche e con varie gallerie private.
Dal 2001 al 2006 è stato docente nel Master per Curatori di Arte Contemporanea organizzato dal Macro (Museo di Arte Contemporanea di Roma) e dalla Facoltà di Architettura di Valle Giulia. Nel 2007 è stato docente nel corso per curatori di archivi fotografici organizzato dalla Fondazione Zeri dell'Università di Bologna. E' stato consulente I.R.R.S.A.E. dell'Emilia-Romagna per il piano di aggiornamento Docenti per le Arti Visive.