Nudo di donna EGON SCHIELE















venerdì 20 novembre 2015

AES+F ALLEGORIA SACRA



“Contemporary culture doesn’t speak in allegories. It plays with the. Similarly to the way in which the children play under the apple trees in that painting by Giovanni Bellini which is both the subject of a new consideration of the sacred by AES+F, and a reflection on the possibility of integrating the work in to the space of contemporary culture […]”  Alexander Balashov

“It’s considered to be some sort of happening or dynamic painting. So, why? Because Allegoria Sacra is not video art, but film”  Mikhail Trofimenkov



di Antonella Colaninno

Qual è il valore del sacro nella cultura contemporanea? Quale collocazione possono trovare le dimensioni del mistero, della verità e della speranza in uno scenario di guerra, di intolleranza e di violenza? “La natura chiusa dello spazio” di un aeroporto può dare luogo ad una narrazione sul senso dell’esistenza, ad una allegoria del sacro, proprio qui, in questo luogo virtuale dove tutto appare finto, irreale, eppure così intenso di significati?  In questo scenario surreale la vita e la morte si esprimono per concetti  simbolici in una struttura narrativa che evoca culture antiche. Il risultato è una impostazione scenica che scorre a metà tra tecnologia e citazione, tra film e video arte, nella quale i valori o disvalori su cui oggi si imposta il moderno dibattito  culturale, si estendono su un’onda di ricezione globale  e multiculturale che con fatica riesce a distinguere una differenza tra il valore della vita e quello della morte. Per questo la dimensione registrata nel video del collettivo russo AES+F assume una fisionomia di inconsistenza spazio temporale dove i personaggi si muovono come fantasmi dissociati da ogni possibile idea di luogo e di tempo, pur essendo quest’ultimo ben identificato in un aeroporto. 

L’azione è congelata in un tempo mentale, in una logica concettuale che limita il coinvolgimento di un’estensione reale. La vita scorre al di fuori degli eventi, è un’apocalisse del sacro dove il mondo appare “una sala d’attesa” senza prospettive, dove le persone di razza e cultura diverse attendono ciascuno il proprio volo. I protagonisti del video sono tutti in attesa di un viaggio tra la vita e la morte, perché il viaggio è il simbolo di quel nomadismo dei popoli della nostra attuale società che,  nella quotidiana spettacolarizzazione degli eventi, contribuisce allo smarrimento del senso della realtà, dove  la stessa vita diventa un oggetto del desiderio, un  prodotto di consumo: esiste ancora un valore del sacro nella nostra società, nel vacuo orrore della cultura contemporanea? Oggi viviamo nel mezzo di una guerra tra le civiltà, tra le culture che è ben messa in scena nel video dai capi mozzati che rotolano sul terreno, un motivo preso in prestito dalla tradizione della pittura. Le rovine di significati con i quali gli artisti lavorano sono desunti da vari contesti culturali del passato, dal Medioevo al Rinascimento  sino al Barocco. Benchè gli eventi che accadono nell’aeroporto non rappresentino la realtà, noi possiamo ritrovare gli aspetti della realtà “oltre le forme, su altri aspetti di quelle forme che ricreano la cultura contemporanea.” I personaggi sembrano morti o persino mai esistiti perché agiscono al di fuori della realtà. 

L’allegoria sacra è la parodia della vuota magnificenza della società contemporanea dove la spettacolarizzazione e il lusso rendono vana e dispersa la dimensione spirituale. Lo Stabat Mater di Vivaldi, sulla cui melodia si costruisce la scena,” fa riferimento alla tradizione musicale barocca” ed esterna una sensualità tipica dei volumi e delle forme morbide e sinuose di quell’epoca, una sensualità che si estende alle movenze dei personaggi del video.
La musica ha in questo valore di allegoria poiché trasferisce il tema del sacro e l’oggetto del Cristo sulla croce all’assenza di sacralità della nostra cultura contemporanea. Oggi assistiamo infatti al dramma di una morte perenne ben occultata dalla seduzione della forma. “La morte qui non è elegiaca. E’ una parodia di se stessa […]”. Non ritroviamo un senso della morte come altro diverso dalla vita, perché non c’è vita e le anime appartengono già al mondo dei morti. In senso cinematografico un’allegoria è “la fine del mondo, è lo shock della civiltà”, è un “contemporaneo declino di Roma” (Mikhail Trofimenkov ).


Pubblicato da Antonella Colaninno

Allegoria Sacra del collettivo russo AES+F (2011) ha vinto la XVIII edizione del Premio Pino Pascali

domenica 11 ottobre 2015

I NUOVI-NUOVI UN ASPETTO DEL POST MODERNO


"Tutti i Nuovi-Nuovi sono nati a stretto gomito rispetto ai loro predecessori, impegnandosi in partenza nelle stesse tecniche" Renato Barilli

di Antonella Colaninno

In un breve saggio scritto molti anni fa, Renato Barilli  espone un’interessante analisi in merito al succedersi veloce nei decenni delle nuove tendenze artistiche che si affacciano sulla scena culturale a partire dal secondo dopoguerra. Si pensi negli anni ’50 all’informale, alla Pop Art degli anni ’60, all’Arte Povera e simili che dominano la scena artistica tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70. Si assiste ad una “rottura” che stranamente ha il suo inizio dopo una convivenza con il vecchio, nel senso che il nuovo nasce in seno al vecchio, vi convive per poi espandersi, allontanandosi e dando inizio alla propria personale ricerca artistica. “Tutti i Nuovi-Nuovi sono nati a stretto gomito rispetto ai loro predecessori, impegnandosi in partenza nelle stesse tecniche”. Possiamo considerare queste manifestazioni in relazione al post-moderno, anche se “non si può farlo corrispondere a senso unico alla situazione Nuova-Nuova.” Barilli sostiene che sulla situazione “concettuale-comportamentista”, “con la relativa morte dell’arte”, è ritornato il valore del segno, del colore e della decorazione e che tutto questo è avvenuto solo nell’arco di tempo di un decennio. L’uomo post moderno è quello dell’elettronica e della comparsa delle tecniche extra artistiche dopo il ’67  (nudità umana e animale, occupazione dell’ambiente), dove la tecnologia più avanzata si unisce ai “caratteri di un’antropologia arcaica” perché “il futuro ha un cuore antico”. La registrazione su nastro o su disco rappresenta il nuovo futurismo che non cancella il passato ma lo registra, e così l’arte contemporanea si svolge tra slanci futuristi ed “elementi passatisti”, perché “i sensi non devono essere solo sollecitati ma anche appagati” Tutta l’arte della generazione post moderna si esprime tra “esplosioni” e “implosioni”, pur non essendo mai i due caratteri così fortemente distanti tra loro (lo spazio post moderno è curvo, quello meccanico sempre proiettato in avanti). Tra il progressivo esplosivo e la regressione implosiva esiste nel mezzo “un grado zero” di appiattimento, la tautologia, nel quale l’arte, priva di alcuna spinta ad oltranza, ripete se stessa. 

De Chirico è un implosivo che lavora sulla citazione e sull’auto citazione, osservando se stesso “retrospettivamente”, mentre Boccioni e Duchamp sono esplosivi. Barilli definisce Paolini “un neoclassico della civiltà elettronica” perché il suo lavoro si svolge sulla citazione pur se con mezzi extra artistici e quindi non introduce lo sviluppo temporale e storico, ma resta chiuso in una dimensione “asettica”. Kounellis è un esplosivo che però cita concettualmente il passato (Tiziano) e si ispira alla tradizione antropologica. Vettor Pisani, con il suo evidente esoterismo, ha richiami al passato che in De Dominicis e Fabro si registra in un’implosione con riferimenti alla tradizione artigianale, “alla bellezza gratificante dei materiali” e “al recupero della grazia.” Ontani e Salvo sono “gli eroi” della prima metà degli anni ’70 che uniscono le due anime del post moderno. Salvo, dopo un esordio con i poveristi, approda al percorso della grazia e della qualità manuale. 

Ontani privilegia la dimensione artigianale. L’esplosione concettuale arriva negli anni successivi mentre dal ’72 si assiste a un vero e proprio culto della fotografia che, nella Narrative Art, si unisce alla scrittura. Anche la fotografia segue il doppio filone dell’esplosione e dell’implosione e lavora sull’artigianalità, arrivando persino a decorare le cornici. Clemente si pone agli antipodi di Salvo e Ontani e alla citazione colta preferisce la regressione al primitivo, lavora con la fotografia invertendo anche in questo il percorso di Salvo e Ontani che alla fotografia approdano con un certo ritardo. In Maraniello c’è un equilibrio tra colore e figura nel recupero del primitivo e dei suoi elementi antropomorfi e zoomorfi. Dai Nuovi-Nuovi dunque scaturirà un grande cambiamento. 

Questi seguaci del cambiamento furono “captati” da Barilli e da Francesca Alinovi (che li menzionò nel ’77 e nel ’78 in una serie di articoli su Bolaffi arte e sul Giornale dello Studio G7 di Bologna) e nel 1979 esposero i loro lavori in una mostra internazionale dal titolo “Pittura ambiente” a Milano. Un titolo che rispondeva alle esigenze di questa tensione generale tra opposte vie di ricerca artistiche tipiche del post moderno che in Italia erano particolarmente vitali (Giorgio Zucca, Vittorio D’Augusta, Ettore Spalletti, Mario Bagnoli, Remo Salvadori). 

Fra i futuri Nuovi-Nuovi ci sono anche i romani Giuseppe Salvatori, Felice Levini, Giorgio Pagano, Luciano Bartolini, che si alternano tra la capitale e Santa Agata dei Goti, nello spazio autogestito a Roma tra il 1978 e il 1979. Barilli sostiene di aver colto nel ’74 quella tendenza implosiva dell’arte che determinerà il mutamento del segno nella ricerca concettuale-comportamentista, una sensibilità storicista e museale che porterà al superamento della stessa pur restando nella sfera di pertinenza dell’antico. 

Si pensi a Salvo, Ontani, Mainolfi, Faggiano, Spoldi, Barbera, Benuzzi, Salvatori e Levini, tutti figurativi del post moderno e della situazione nuova-nuova. Barilli parla di una citazione libera e allargata in cui si inserisce Clemente con le sue grottesche figure “barbariche-regressive”, Paladino (nel ’77), Chia, Cucchi (il più fantasioso e autentico). Su Chia e Chucci punta subito ABO che nel ’79 riunisce i 5 artisti Clemente, Cucchi, Chia, De Maria e Paladino nella Transavanguardia. “Eleganza istintiva” e “felicità cromatica” per Clemente e Paladino, non sono del tutto soffocate dalla “trasandatezza del gruppo”, “un clamore e una barbarie che hanno fatto scuola “tra gli imitatori”. Si assiste a un cambiamento nel nostro paese, a una nuova fioritura, a un nuovo Made in Italy. Parmiggiani è un vecchio concettuale; Salvo, Ontani, Mainolfi, Faggiano e Spoldi seguono la linea post citazionista, Clemente, Cucchi e Chia rappresentano la linea romana, Paladino e De Maria la linea milanese-torinese, Salvadori e Bagnoli sono dei “concettuali esoterici” mentre Bartolini e Jori pittori ambientali. Nel marzo dell’80 era nasce alla GAM di Bologna la compagine dei Nuovi-Nuovi, dalla fusione della linea iconica e della luce della Pittura Ambiente. La tendenza post moderna non manca di toccare anche altri ambiti come il teatro, l’architettura e il design, dove spiccano i nomi di Sottsass e Mendini. Anche in questi campi si assiste a una fase esplosiva e ad una implosiva tra passato e futuro, specie nel teatro. “La pratica della performance è il più tipico risultato dell’anima esplosiva della condizione post moderna […] è l’esercizio nudo e povero delle nostre facoltà corporali espanse a catturare l’ambiente.” Nella rassegna bolognese di Barilli si sono alternati: Acconci, Agnetti, Chiari, Marina Abramovic e Ulay, Nitsch, Palestine, Patella, Vaccari, Ontani, Kuschner e altri.


Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Selvatico e mancanze sparse di Vittorio D'Augusta; Autoritratto di Giorgio De Chirico; Luigi Ontani; il critico d'arte Francesca Alinovi; Giuseppe Salvatori; Alle forche caudine di Luigi Mainolfi, 1981.



mercoledì 30 settembre 2015

LA GRANDE MADRE



di Antonella Colaninno
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento “Gertrude Kasebier e Alice Guy-Blanchè rappresentano la maternità come idillio e fiaba”. “Apparentemente convenzionali, le loro opere nascono in realtà da spiriti liberi e indipendenti”: la Kasebier è la prima fotografa donna ad “affermarsi commercialmente” mentre la Guy-Blanchè è “la prima regista donna, purtroppo tuttora meno nota dei suoi contemporanei, i fratelli Lumière”.

Così esordisce negli spazi espositivi di Palazzo Reale la mostra la Grande Madre, presentando nella prima sala il lavoro cinematografico della Guy-Blanchè (1873) e le fotografie di Gertrude Kasebier (1852) ultima espressione di un cambiamento epocale che avrebbe modificato la maternità non solo nella sua rappresentazione, ma nell’esperienza stessa del suo valore, una trasformazione che ”le forme organiche della scultura di Magdalena Abakanowicz (1930) sembrano presagire […].” La maternità nel Novecento trasferisce il suo idillio “in un intreccio misterioso di tensioni”  entrando nel vortice di un cambiamento di pensiero ormai irrefrenabile e tumultuoso come la potenza di un’inondazione. La mostra la Grande Madre estende la sua riflessione oltre il senso comune per comprendere il valore della maternità tra enfasi e limite alla libertà, nella condanna di un corpo che si modifica tra slanci, speranze e insicurezze. Essa infatti ricostruisce il percorso della donna alla conquista della propria identità in un secolo in cui tanto si è discusso “sul potere negato alle donne e sul potere conquistato dalle donne”, sulla sessualità e sui suoi ruoli, nel mito nascente della “donna meccanica” decantata da Francis Picabia (1879) nel volumetto intitolato “la figlia nata senza madre”. Macchine rappresentate come donne in cui tecnologia ed eros, meccanica e desiderio si mescolano. Tra emancipazione e oppressione culturale, la donna surrealista di Andrè Breton (1896) e Salvador Dalì (1904) così come “la donna 100 teste” di Max Ernst (1891) si scontra con la politica delle nascite di epoca fascista. Con il Fascismo infatti l’identità femminile tende a smarrirsi nell’idea di nazione  e confluisce in una sensibilità collettiva declinata all’idea programmatica di ricostruzione sociale. La donna è deputata alla procreazione al di fuori di una scelta libera e condivisa ma imposta, se pur inconsapevolmente, dall’illusorietà dell’inizio di una nuova epoca. La rivendicazione del femminismo e della centralità del corpo della donna come elemento di natura è invece la riflessione che passa attraverso il lavoro di Marisa Merz (1926), Carla Accardi (1924) e Yoko Ono (1933). Nei collages di Barbara Kruger (1945) e Ketty La Rocca (1976) si vuole invece decostruire l’immagine della donna e della madre creata dai mass-media e “portare l’attenzione sulle disuguaglianze di genere […] per svelare criticamente in che modo le donne vengono condizionate a vedere se stesse […] e come le immagini e il linguaggio rafforzano le norme che impongono il loro ruolo nella società”. Negli anni ’90 gli scatti della fotografa olandese Rineke Dijkstra (1959) ritraggono madri e figli nudi a poche ore dal parto, mettendo in mostra così gli aspetti più fragili e delicati della maternità e dei cambiamenti del corpo che si espone senza barriere culturali. I soggetti nudi posano disarmati “in atteggiamenti naturali che rivelano la loro personalità e le loro emozioni […]”. 


L’artista “da una rappresentazione non sentimentale del parto, cogliendo la complessa mescolanza di emozioni provate dalle neomadri. Il prezzo fisico della maternità è ben visibile sui corpi di queste donne, mentre i loro volti esprimono stanchezza, orgoglio e una naturale protettività verso i loro bambini”.

In “It’s the mother” l’artista svedese Nathalie Djurberg (1978) riprende il concetto freudiano dell’utero come heimlich cioè come casa, “un desiderio di regressione al conforto e alla familiarità del grembo materno”,  per questo nel video i cinque bambini di creta “si ricacciano a forza nel suo utero ignorando le sue proteste” lasciando emergere una sensibilità meccanica e “post umana”. Il fotografo ritrattista americano Nicholas Nixon (1947) realizza, a partire dal 1975, la prima di una serie di foto dedicate alle Brown Sisters. 

Una sequenza di ritratti che terminerà nel 2014 nella quale le sorelle Brown (cognate e moglie dell’artista) poseranno sempre nello stesso ordine di anno in anno, sfidando il tempo e mettendo a nudo il loro viso segnato dalle rughe che si affollano e si diffondono tra le pieghe della pelle. Nixon definì questa produzione un “catalogo in progress di anime e corpi umani”, “una narrazione trasversale, costruita su affinità elettive e legami affettivi […]”. La mostra la Grande Madre comprende un gruppo corposo ed eterogeneo di artisti che, tra pittura, scultura, film e video arte, raccontano tutte le declinazioni di un’epoca affrontando gli sviluppi della scienza  e i cambiamenti culturali e sociali che da questo sono derivati. “Un nuovo immaginario scientifico in cui tecnologia e biologia si fondono aprendo nuove prospettive attraverso le quali superare vecchie distinzioni sessuali e di genere. […] si prefigura una nuova condizione post-umana e si spalancano nuove frontiere della riproduzione”. 

“Epilogo: la perdita, l’assenza, il ricordo” chiude il percorso espositivo con una riflessione di Roland Barthes (1915), critico letterario e filosofo francese, che espone nell’ultima sala. Secondo Barthes, autore di La chambre claire, 1980, uno tra i testi di fotografia più letti, la fotografia rivela un legame inscindibile dalla sfera sentimentale e sottolinea le sue “qualità soggettive ed emotive”. 

Il recupero dell’immagine e del ricordo attraverso la fotografia spiega il femminismo della scrittrice Virginia Woolf (1882) (che fu anche una fotografa), che parte non a caso, dal recupero della figura materna. “[…] la scrittrice avrebbe inserito la memoria della madre in alcune foto ufficiali, come quella in cui posa per Vogue con indosso gli abiti di lei, quasi a volerne perpetuare, anche solo simbolicamente, la presenza attraverso nuove immagini.”


Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Gillian Wearing, Self-Portrait as My Mother Jean Gregory, 2003; autoritratto della regista Alice Guy-Blanchè; 2 scatti della fotografa Rineke Dijkstra; immagine estratta dal video dell’artista Nathalia Djurberg; The Brown Sisters di Nicholas Nixon; Roland Barthes; la scrittrice Virginia Woolf; manifesti politici.

LA GRANDE MADRE
26 agosto – 26 novembre
A cura di Massimiliano Gioni
Palazzo Reale, Milano
Mostra visitata il 24 settembre

lunedì 28 settembre 2015

ANSELM KIEFER I SETTE PALAZZI CELESTI 2004-2015




di Antonella Colaninno

I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer è un’installazione site-specific ispirata ai Palazzi decritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot, il Libro dei Palazzi/Santuari  risalente al IV-V secolo d. C. Esposta dal 2004 presso l’Hangar Bicocca di Milano, oggi l’installazione si presenta in un nuovo allestimento reso percorribile al pubblico, che si arricchisce di 5 grandi tele inedite. E’ possibile infatti fruire dell’opera nelle differenti prospettive ed entrare persino all’interno delle torri, strutture  di cemento dal peso di 90 tonnellate ciascuna, alte dai 14 ai 18 metri. Si è protagonisti di un’esperienza suggestiva, in un percorso ascendente che guida il nostro sguardo all’interno della torre verso mete spirituali, un cammino simbolico di iniziazione come si racconta nelle antiche tradizioni ebraiche. L’opera di Kiefer rappresenta il fallimento delle ambizioni umane che hanno cercato di elevarsi ad uno stadio divino, che hanno portato alle guerre e alle conseguenti rovine , ma sono anche la speranza di un “futuro possibile da cui l’artista ci invita a guardare il nostro presente”. Le cinque opere pittoriche  sono state realizzate dal 2009 al 2013 


2013 (Jaipur,2009; Cette obscure clartè qui tombe des ètoiles 1, 2011; Cette obscure ciartè qui tombe des ètoiles 2, 2011; Alchemia, 2012; Die Deutsche Heilslinie, 2012-2013). 

Paesaggi desertici e notturni  dove la terra “appare del tutto sterile”, resi da una raffinata stesura materica che “oltrepassa il limite tra pittura e scultura e sembra invitare l’osservatore a entrare nel suo mondo”. In questi paesaggi, dove la presenza umana appare negata, l’artista inserisce dei semi di girasole, forse un richiamo alla futura rinascita e fioritura di una nuova vita. 

Die Deutsche Heilslinie è l’opera più grande della serie e rappresenta simbolicamente “la storia della salvezza tedesca”.  La figura solitaria di un uomo di spalle osserva sullo sfondo il paesaggio attraversato per l’intera superficie da un arcobaleno che collega idealmente cielo e terra. 

Sotto l’arcobaleno Kiefer trascrive i nomi di quei pensatori tedeschi che, dall’Illuminismo a Karl Marx, hanno sostenuto l’idea di salvezza “attraverso l’azione di un leader” e attraverso il riconoscimento della propria identità individuale. Anselm Kiefer nasce a Donaueschingen in Germania nel 1945. Realizza le sue prime opere nella seconda metà degli anni ’60, ispirandosi al lavoro dell’artista Joseph Beuys. Il suo primo quadro di grandi dimensioni risale al 1971, una rilettura della recente storia tedesca “attraverso riferimenti alla filosofia e alla mitologia teutonica”. “Intraprende lunghi viaggi in Egitto, Yemen, Brasile, India e America Centrale alla ricerca dei segni delle antiche civiltà scomparse”, e durante un viaggio a Gerusalemme, resta affascinato dal misticismo della Cabala. Le suggestioni di questi viaggi e il fascino delle grandi costruzioni architettoniche si tradurranno pittoricamente nelle rovine simbolo del fallimento delle ambizioni dell’umanità. Nel sud della Francia a Barjac, Kiefer ha realizzato un museo personale trasformando in casa-studio lo spazio di una fabbrica della seta di 350.000 metri quadrati: qui infatti sono custodite alcune delle sue grandi installazioni.  L’artista oggi vive e lavora tra Croissy e Parigi. 
Pubblicato da Antonella Colaninno

Foto di Antonella Colaninno 
Conferenza per la stampa giovedì 24 settembre 2015, ore 11.00 Hangar Bicocca, Milano


sabato 18 luglio 2015

PALAZZO CINI LA GALLERIA. STORIA DI UN COLLEZIONISTA TRA IMPRESA E IMPEGNO POLITICO




by Antonella Colaninno

La galleria di Palazzo Cini a Venezia è la casa-museo che oggi vanta un nucleo consistente della ricca collezione dell’imprenditore e mecenate ferrarese Vittorio Cini (Ferrara, 1885-Venezia,1977), tra i più importanti collezionisti del Novecento italiano, insieme al genovese Angelo Costa e al parmense Luigi Magnani. 

Le opere d’arte da lui raccolte nel corso degli anni fanno parte del patrimonio artistico nazionale, una collezione che in parte, è ospitata in Palazzo Cini a San Vio, mentre il Castello di Monselice e l’isola di San Giorgio accolgono le restanti opere d’arte di questa prestigiosa raccolta. La galleria di Palazzo Cini fu inaugurata il 21 settembre 1989 alla presenza di Federico Zeri, che aveva catalogato e allestito le opere. Yana Cini Alliata di Montereale, terzogenita del Conte Vittorio Cini, decise, nel 1981, di donare alla Fondazione Giorgio Cini i dipinti toscani databili tra il XIII e il XVI secolo e gli oggetti d’arte, oltre ai due piani nobili del palazzo a San Vio. Nel 1989 grazie alla donazione di Yeda Cini Guglielmi di Vulci, sorella gemella di Yana, si aggiunsero alla raccolta i dipinti ferraresi di epoca rinascimentale, anche questi ultimi appartenenti alla collezione originaria del conte, che si è costituita nel ventennio tra gli anni ’50 e ’70 del Novecento. Federico Zeri definisce Vittorio Cini il “vero raccoglitore di pittura antica”, un collezionista attento, guidato nelle sue scelte da esperti di opere d’arte; fu lo stesso Zeri a consigliarlo negli ultimi vent’anni di vita, dopo la collaborazione che Cini ebbe con il critico d’arte Nino Barbantini, che lo guidò nel recupero della cultura figurativa ferrarese, e quella con lo storico dell’arte americano Bernard Berenson. Sempre attento a seguire un principio di bellezza, sostenuto dalla sua innata sensibilità artistica, Vittorio Cini concepì la sua collezione come un nucleo prezioso ed eterogeno che ha dato spazio, accanto alle opere di grandi artisti, anche ad autori meno celebri ma di uguale qualità “per motivi di attribuzione o di iconografia”. “[…] poco più che ventenne tra il 1910-15, nella residenza di Ferrara iniziò il recupero della memoria figurativa della città natale con un primo nucleo di dipinti che esemplificavano la cultura artistica sviluppatasi nella capitale estense dal Rinascimento al ‘900, sino al contemporaneo Giovanni Boldini”. “Senza seguire mode passeggere, né metodi storico-archeologici, la raccolta ha conservato così un inconfondibile sapore –domestico-“ Il percorso espositivo accoglie all’ingresso il visitatore con il busto di Yana, pregiata scultura dell’artista siciliano Francesco Messina. 

Tra le opere esposte, sono presenti tra le altre, la croce processionale duecentesca di Giunta Pisano; le tavole di Gaddo Gaddi e Taddeo Gaddi. La Madonna con il Bambino, santi e angeli musicanti di Filippo Lippi rappresenta la sezione dedicata al Rinascimento toscano, insieme alla piccola tavola di San Tommaso d’Aquino del Beato Angelico, parte dell’altare smembrato della chiesa di San Marco a Firenze. Inoltre, non da ultimi, la Madonna con il Bambino e due angeli di Piero di Cosimo; la Madonna con il Bambino di Piero della Francesca; Il giudizio di Paride di Botticelli e bottega e il Doppio ritratto di amici di Jacopo Pontormo. 

Cosmè Tura, Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa sono tra gli artisti presenti nella sala dei Ferraresi. Infine, l’importante tavola con Scena allegorica di Dosso Dossi, proveniente dal soffitto della camera da letto di Alfonso I d’Este nel Castello Estense di Ferrara. Il 20 aprile 1951 Vittorio Cini costituì la Fondazione Giorgio Cini in memoria del figlio Giorgio morto prematuramente in un incidente di volo. Oggi la Fondazione Giorgio Cini, nata con finalità culturali e politiche, è attiva sull’isola con un intenso programma di attività culturali, tra mostre, congressi e incontri. Dal 2012 con la collaborazione di Pentagram Stiftung, la Fondazione ha avviato il progetto Le Stanze del Vetro, che intende incentivare lo studio dell’arte del vetro dal XX al XXI secolo. Il progetto si è avviato il 28 agosto 2012 con l’ inaugurazione  della mostra dal titolo Carlo Scarpa-Venini 1932-1947, in omaggio al celebre architetto veneziano negli anni in cui fu direttore della vetreria Venini.




Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Palazzo Cini (foto by Antonella Colaninno); Vittorio Cini; busto di Yana, scultura di Francesco Messina; Doppio ritratto di amici di Jacopo Pontormo; particolare della Madonna con il Bambino di Piero della Francesca; Piero di Cosimo, Madonna con il Bambino e due angeli.

lunedì 22 giugno 2015

CODICE ITALIA ALLA 56. BIENNALE DI VENEZIA


di Antonella Colaninno

Con un allestimento di opere site-specific di 15 autori e tre omaggi all’arte italiana di importanti artisti internazionali, il Padiglione Italia  della 56. Biennale di Venezia reinventa il senso del tempo investendo sul rapporto tra arte e società. Il curatore Vincenzo Trione ha pensato a un lavoro di ricerca che avesse i “caratteri originali della creatività italiana” e segnasse la linea guida per una nuova estetica attraverso il recupero della memoria. Codice Italia rappresenta, infatti, un punto di continuità con il passato e, allo stesso tempo, intende superare la linea del tempo per riappropriarsi del presente ma con lo sguardo rivolto verso la storia, al “codice genetico del nostro stile”. Gli artisti di Codice Italia “[…] si sottraggono alla dittatura del presente per offrire un retroterra alle loro avventure linguistiche, interrogano immagini lontane, i loro gesti racchiudono segreti rimandi alla storia dell’arte. Scelgono, perciò, di passeggiare tra le stanze di un passato che si insinua nell’attualità come un archivio di frammenti che vogliono convocare. Qui. Ora. Fino a renderli irriconoscibili”. Le installazioni ripercorrono alcune delle grandi stagioni dell’arte italiana: l’Arte povera e la Transavanguardia, con la presenza di artisti come Jannis Kounellis, Mimmo Paladino e Nino Longobardi, ma interpretano anche la libertà di visione di voci isolate e originali di artisti quali Vanessa Beecroft e Claudio Parmiggiani. Questa importante riflessione sulla memoria, che si accompagna al tentativo di conciliare le diversità culturali tra passato e presente, si avvale dell’omaggio che tre artisti internazionali hanno voluto dedicare alla storia dell’arte italiana: Peter Greenaway, William Kentridge e Jean-Marie Straub. A Umberto Eco è, invece, affidata una riflessione sulla “reinvenzione della memoria” nella videoinstallazione del regista Davide Ferrario. Il percorso espositivo è organizzato all'interno di stanze scenografiche nelle quali ogni artista racconta la propria poetica attraverso le grandi installazioni che “si consegnano a noi […] come luoghi ibridi, in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’ora in una costellazione”.


Nella classicità delle sculture di Vanessa Beecroft, lo sguardo sul tempo si perde tra richiami archeologici e avanguardia di pensiero mentre l’archivio della memoria di Nino Longobardi si muove tra pittura e scultura sullo sfondo di un colonnato. Sul filo del passato, la figura solitaria di Mimmo Paladino evoca memorie lontane tra numeri, segni e strane geometrie. “Le loro sono profanazioni: non innalzano la storia dell’arte sopra un piedistallo irraggiungibile, ma ne negano l’aura. Consacrano e sviliscono i modelli . Smontano e rimontano episodi di altre epoche, per disporre le loro rimembranze all’interno di una discontinua trama. In bilico tra rispetto e trasgressione, elaborano discorsi aperti a sconfinamenti e a interruzioni, suggerendo una sintassi dominata da echi poco evidenti”. Un Padiglione Italia interessante che si colloca tra pensiero e materia al bivio di un percorso sul tempo che riscopre la stanza come luogo del sogno e  della riflessione, come palco di un teatro immaginario della memoria dove il passato confluisce sul presente tra le scenografie simboliche del contemporaneo.

Artisti in mostra: Allis/Filliol; Andrea Aquilanti; Francesco Barocco; Vanessa Beecroft; Antonio Biasucci; Giuseppe Caccavale; Paolo Gioli; Jannis Kounellis, Nino Longobardi; Marzia Migliora; Luca Monterastelli; Mimmo Paladino; Claudio Parmiggiani; Nicola Samorì; Aldo Tambellini.


Pubblicato da Antonella Colaninno  

In foto: Venezia (by A. Colaninno); Vincenzo Trione; Vanessa Beecroft (Genova, 1969); Luca Monterastelli (Forlimpopoli, 1983); Mimmo Paladino (Paduli, 1948); Claudio Parmiggiani (Luzzara, 1943).

giovedì 4 giugno 2015

NUOVA OGGETTIVITA’ ARTE IN GERMANIA AL TEMPO DELLA REPUBBLICA DI WEIMAR 1919-1933



by Antonella Colaninno

La Repubblica di Weimar è la forma di democrazia tedesca che dal 1919 al 1933 ha raccolto i frammenti di una società in declino dopo la fine del primo conflitto mondiale mentre la Germania si preparava all’avvento del Nazismo, tra le macerie spirituali del degrado morale e dell’”isolamento umano”. Nella disperazione sociale lo sguardo dell’artista si rivolse all’esterno, rapito dal dramma della miseria  e dello scenario di morte che contava due milioni di soldati ammazzati e oltre quattro milioni tra invalidi e feriti di guerra. I 14 anni della Repubblica di Weimar raccolsero anche le tendenze culturali di una nuova visione del mondo figlia della modernizzazione e della urbanizzazione oltre che dello sviluppo tecnologico e industriale, che determinò il “mutamento delle identità di genere” . “La prima democrazia tedesca è un fertile laboratorio di esperienze culturali che vede il tramonto dell’espressionismo, le esuberanti attività antiartistiche dei dadaisti, la fondazione del Bauhaus e l’emergere di un nuovo realismo, variamente definito postespressionismo, neonaturalismo, verismo o realismo magico. In parte ispirati dalla pittura metafisica, i diversi artisti associati  a questa nuova figurazione formano un gruppo eterogeneo e non sono vincolati da un manifesto programmatico, da una tendenza politica o da un’unica provenienza geografica: ciò che li accomuna è piuttosto uno scetticismo verso la direzione intrapresa dalla società tedesca e la consapevolezza dell’isolamento umano che questi cambiamenti comportano”. Questi artisti rappresentano una nuova oggettività, un realismo a tratti metafisico e analitico che non lascia spazio alle emozioni , che registra la realtà con sguardo distaccato lasciando che sia la realtà a raccontare se stessa. Nella singolare personalità del proprio stile, gli artisti di questo periodo lasciano emergere il disagio collettivo di identità che si trasformano e illustrano quegli aspetti del sociale sino ad allora in ombra come l’omosessualità, la violenza della prostituzione e il vagheggiamento di una dimensione romantica della sessualità. Le incisioni di Otto Dix rappresentano attraverso il crudo realismo e la ferocia dei particolari, la devastazione della guerra e l’arido scenario di morte. Con sarcasmo, l’artista racconta la disperazione degli sguardi dei protagonisti di “Giocatori di carte”, una partita a tre tra corpi derelitti e amputati negli arti. Denuncia politica, corruzione del potere, emancipazione femminile e degrado sociale sono solo alcuni dei temi trattati dalla Neue Sachlichkeit. Il cambiamento di ruoli,  il mutamento delle identità e la costante urbanizzazione delle città determinano una alienazione sociale che è possibile rilevare attraverso la resa distaccata dei soggetti ritratti e dalla fissità dello sguardo nei volti che traduce quell’isolamento dell’individuo nel proprio spazio esistenziale. Una analisi della società che ribalta ruoli e valori e lascia emergere tipologie umane sino ad allora emarginate. 

Si pensi alla Margot di Rudolf Schlichter o ai Ragazzi innamorati di Christian Schad che aprono lo sguardo sulla diversità dell’amore, quasi un riscatto della dolcezza contro il dilagare della prostituzione. Spesso questi artisti dipingono episodi legati alla cronaca nera, rappresentano la  violenza degli omicidi a sfondo sessuale, e tutto ciò si fissa nell’immaginario collettivo di un’epoca alla ricerca di una dimensione affettiva nel malessere diffuso di un vuoto di valori. La nuova generazione di artisti che la follia del Terzo Reich definirà degenerata, ma che in fondo, ha dato voce aduna rivoluzione espressiva del segno senza mai tradire il proprio sguardo obiettivo e disincantato sul mondo.


Pubblicato da Antonella Colaninno



Mostra visitata il 9 maggio 2015
Nuova oggettività. Arte in Germania al tempo della Repubblica di Weimar 1919-1933
Museo Correr Venezia –dal 1 maggio al 30 agosto 2015

In foto: Museo Correr Venezia (by A.Colaninno), Christian Schad, Autoritratto con modella, 1927; Margot di Rudolf Schlichter, 1924; August Sander, Segretaria presso la Radio della Germania Occidentale a Colonia, fotografia 1931.

sabato 30 maggio 2015

OKWUI ENWEZOR TRA PASSATO E FUTURO. TUTTI I FUTURI DEL MONDO ALLA 56. ESPOSIZIONE INTERNAZIONALE D’ARTE DELLA BIENNALE DI VENEZIA.


“In ogni Biennale la presenza a fianco del nostro curatore delle diverse voci dei curatori nei diversi padiglioni concorre a realizzare un valore importante, il pluralismo di voci. “Parliament of Forms”. Nulla più di un parlamento deve prevedere pluralità di voci. Sia nelle Biennali più intimiste, sia in quelle più drammaturgicamente coinvolgenti la storia, è importante che la Mostra sia sempre vissuta come luogo di libero dialogo.” PAOLO BARATTA, Presidente della Biennale di Venezia




by Antonella Colaninno

La 56. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia celebra i suoi 120 anni di attività da quel lontano 1895 quando nello storico  spazio del Padiglione Centrale dei Giardini fu inaugurata la prima edizione. Il curatore nigeriano Okwui Enwezor presenta al pubblico la sua mostra internazionale All the World’s  Futures in una prospettiva che tra slanci e citazione guarda a tutti i “futuri del mondo” tra le difficoltà di un presente incerto e caotico.  Enwezor si pone in continuità di ricerca con il lavoro di Bice Curriger e Massimiliano Gioni che nelle precedenti edizioni della Biennale avevano iniziato una riflessione sul senso dell’arte in un’epoca di estensione estetica sulle frontiere del digitale e della multiculturalità. Le fratture ideologiche della società contemporanea amplificano la sensibilità degli artisti dando vita ad un “parlamento delle forme” rappresentato da una serie di “filtri” che si sovrappongono tra loro e coinvolgono tutti i campi della creatività. 

Nel Padiglione Centrale dei Giardini il curatore sviluppa un interessante progetto espositivo dal titolo L’Arena strutturato in Filtri/sezioni suddivisi nei seguenti temi: “Vitalità: sulla durata epica”, “Il giardino del disordine”, “Il Capitale: una lettura dal vivo” perché tutto è in continua evoluzione e si avvale di aggiunte e contributi esterni creando un disordine di forme e contenuti che rispecchia il caos contemporaneo. Ad epilogo di questo percorso  si pone l’importante riflessione sul Capitale, nucleo centrale delle difformità sociali in cui viviamo e della “rapacità dell’industria finanziaria” un tema da sempre oggetto di studio per intellettuali ed economisti. Una programmazione interdisciplinare di eventi che comprende anche la lettura di Das Kapital  di Karl Marx  si ispira alla Biennale del 1974 che dedicò una parte delle sue manifestazioni in programma alla delicata questione del Cile dopo il colpo di Stato del generale Pinochet che nel 1973 pose fine al governo di Salvador Allende. “E’ superfluo osservare che, nell’inquietudine dell’attuale scenario internazionale, gli Eventi della Biennale del 1974 sono stati una fonte di ispirazione  per la Mostra di quest’anno”. Questo spiega come l’arte sia espressione non solo di realtà individuali e codificate nella personale realtà immaginativa dell’artista, ma  si faccia portavoce di una memoria collettiva. E’ un segnale importante che“[…] un esposizione della statura della Biennale Arte abbia non solo reagito, ma abbia anche coraggiosamente tentato di condividere il proprio palcoscenico storico con il contesto politico e sociale contemporaneo”. Fotografia, canto, musica, arte e letteratura sono lo scenario complesso e fluido con  il quale “gli artisti indagano la condizione umana “ “fino ad arrivare a toccare altri segmenti del corpo sociale”. Il senso sulla “Vitalità: durata epica” nucleo centrale dell’Esposizione, avrà il suo completamento nella pubblicazione del volume “All the World’ s Futures”: lo stato delle cose” nel quale saranno riportati tutti gli eventi tra performance, conferenze, letture e dialoghi , un vero e proprio “giornale di bordo della mostra” “che costituirà un archivio e una riflessione sull’andamento dell’Esposizione e sulla sua conclusione “.



Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Il Presidente della Biennale Paolo Baratta e il curatore Okwui Enwezor; Venezia; il Padiglione Centrale dei Giardini; l’Arsenale; il curatore nigeriano Okwui Enwezor su L’UOMO VOGUE.