Nudo di donna EGON SCHIELE















lunedì 21 giugno 2010


…BUT, WHERE IS BARI?
Percorso nell’arte contemporanea. La Galleria Bonomo dal1971.

“Una vera galleria è anche un centro culturale, un luogo di formazione, un elemento che interagisce con la città e stimola la creatività”.
“…But where is Bari?”
“Questa domanda aleggia scherzosamente come un ritornello intorno alla Galleria Bonomo. Gli artisti d’oltreoceano che incontravo agli inizi e ai quali chiedevo di esporre a Bari si facevano coinvolgere dall’entusiasmo, progettavano la mostra, stabilivano la data, ma poi invariabilmente chiedevano:…but, where is Bari? Così nacque l’idea di farne una pagina di pubblicità sulla rivista americana Avalanche diretta da Willoughby Sharp. Fu una trovata che divertì tutti, divertì anche Bari”. Così scrive Marilena Bonomo nel libro edito da Umberto Alemanni & C. editore che racconta 38 anni di storia di una delle più importanti gallerie di Italia ma anche la storia dell’arte e degli artisti che in tutti questi anni hanno rappresentato il cambiamento del costume. Un libro che non vuole essere autoreferenziale e che racconta in parallelo l’amore per l’arte, per la convivialità e per l’incontro culturale. Un’impresa di famiglia che è cresciuta partendo dal collezionismo e assecondando una passione per l’arte. Il libro rivive i ricordi degli incontri e dei sogni di Marilena e Lorenzo Bonomo e ripercorre gli eventi e i personaggi che hanno frequentato questi luoghi. La Galleria Bonomo nasce nel lontano 1971 e segue quell’interesse per l’arte concettuale-minimalista che si afferma proprio negli anni ’60-’70 che dematerializza la materia avvalorando l’idea del processo creativo. “Quel momento anni ’60-’70, scrive Lorenzo Bonomo, è stato l’inizio di una nuova cultura e di un interesse per un’arte allora nuova, quella concettuale-minimalista, che superava un periodo completamente diverso, cioè quello dell’espressionismo astratto di De Kooning, Pollock e altri, e quello della pop art di Warhol e Lichtenstein, a parte alcuni grandi come Jasper Johns, Rauschenberg, Rothko, Barnett Newman che mi sembrano artisti di difficile collocazione ed etichettatura”. Erano certamente anni difficili in cui era faticoso scegliere in un mercato che proponeva da una parte l’autonomia dell’Arte Povera e dall’altra il “martellante fenomeno del lancio internazionale della Transavanguardia come Koinè”.(Francesco Moschini). Gli esordi della galleria sono legati ad una importante mostra che in apertura degli anni settanta vide partecipare in galleria nomi come Alighiero Boetti, Giulio Paolini, Sol Le Witt, Luciano Fabro, Robert Barry, Mel Bochner, Daniel Buren, Hanne Darboven, Jan Dibbers, Robert Ryman, Lawrence Weiner. Una idea di internazionalizzazione dell’arte che non ha trascurato l’attenzione verso gli artisti pugliesi come Tullio De Gennaro, Paolo Lunanova, Franco Dellerba, Pippo Patruno, Agnese Purgatorio Annalisa Pintucci. Molte le mostre che rivivono nelle pagine di questo libro, come quella organizzata nel 1986 nella Gipsoteca del Castello Svevo di Bari intitolata “Sculture da camera”, un allestimento di sculture contemporanee partito da Bari e approdato in importanti sedi quali Utrecht, Ginevra, Atene, Berlino, Spoleto, Los Angeles e che ha visto tra gli artisti: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Lucio Fontana, Sol Le Witt, Mario Merz, Mimmo Paladino, Luigi Ontani, David Tremlett, Mario Schifano, solo per citarne alcuni. Negli anni ’80 la galleria ha realizzato all’interno delle proprie sale dei Wall drawing, termine coniato da Sol Le Witt, come quelli realizzati nel 1982 dal titolo “Changes of circle. Black on White”e quelli realizzati nel 1988 da Anthony Sansotta con la collaborazione di Biagio Caldarelli e degli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Bari, organizzati su un disegno geometrico che copriva le pareti dell’intera galleria attraverso l’uso di inchiostri colorati spugnati direttamente sul muro, un intervento tra i primi wall drawing in cui fu usato il colore. Sol Le Witt è stato uno degli artisti che maggiormante ha collaborato con la galleria, si pensi alle piramidi in legno laccato presentate a Spoleto o l’opera esposta nel Palazzo della Camera di Commercio di Bari, proveniente dalla Biennale di Venezia, intitolata “Complex Form n° 8”. Tra gli altri appuntamenti della galleria vorrei infine ricordare la rassegna Art&Maggio-ArenaPuglia, realizzata nel 1998 presso lo stadio della Vittoria di Bari. Un evento importante che rileva l’attenzione che Lorenzo e Marilena Bonomo hanno sempre mostrato verso il territorio, non dimenticando le radici della propria cultura sempre alla ricerca di nuovi stimoli e di importanti frontiere.

Antonella Colaninno

A BRUXELLES IL MUSEO DEDICATO A RENE' MAGRITTE


Dal 2 giugno 2009, nel quartiere di Mont des Arts di Bruxelles è possibile visitare il Musèe Magritte Museum dedicato al grande pittore surrealista belga Renè Francois Ghislaim Magritte, conosciuto anche come incisore, scultore,disegnatore, fotografo e cineasta. Gli allestimenti, curati dall’architetto scenografo Winston Spriet, si svolgono all’interno di uno spazio espositivo che occupa 2500 metri quadrati distribuiti su tre livelli che comprende la più grande collezione al mondo delle opere dell’artista belga. Renè Magritte (1867-1967) è stato uno dei maggiori rappresentanti del Surrealismo, movimento nato in Francia nel 1922 nel fervore culturale della capitale francese. Qui Breton ha raccolto l’eredità dadaista riprendendo con il primo manifesto del 1924 le tendenze rivoluzionarie del Dadaismo. Hans Richter sosteneva che il Surrealismo aveva dato un significato e un senso a Dada e che questo invece, gli aveva dato la vita. Il Surrealismo attenua la vis polemica dadaista e il suo atteggiamento anticonformista e ribelle verso ogni forma d’arte accademica e ogni regola estetica. Riscopre la pratica creativa e afferma la totalità dell’essere e la libertà del pensiero attraverso il segno. Per poter sviluppare la propria immaginazione l’artista deve essere un veggente e saper guardare oltre il limite del vero attraverso una verosimiglianza di natura concettuale. Magritte era affascinato dal mistero del mondo, dalla impenetrabilità della sua conoscenza e ne evoca il mistero attraverso la pittura. Il quadro non può rappresentare il reale perché la somiglianza non è la realtà. L’ispirazione rappresenta l’evento necessario affinchè il pensiero possa essere la stessa somiglianza. Egli sosteneva che “assomigliare significa diventare la cosa che si prende con sé”. “Solo il pensiero può diventare la cosa che si prende con sé”. “Non c’è immagine pittorica fino a quando l’aspetto dei colori stesi su una superficie coincidono con una immagine che era similitudine con il mondo visibile” determinata da un modo di pensare. C’è la riscoperta di una identità visiva che avvalora il pensiero della creazione come atto di conoscenza del dato oggettivo che diventa proiezione dell’idea. Lasciata Parigi nel 1930, Magritte si stabilisce definitivamente a Bruxelles e nel 1932 aderisce al partito comunista. Nel 1936 organizza la sua prima esposizione a New York e una personale al Palais des beaux-arts di Bruxelles. Soltanto dopo gli anni cinquanta gli viene riconosciuto in tutto il mondo il meritato successo.

Antonella Colaninno





MUSEO VEDOVA
A VENEZIA IL PRIMO MUSEO IN MOVIMENTO



E’ stato inaugurato lo scorso 3 giugno 2009 negli antichi Magazzini del Sale alle Zattere di Venezia, il nuovo spazio espositivo in memoria di Emilio Vedova (Venezia, 9 agosto 1919-Venezia, 25 ottobre 2006). Con un investimento di 1,5 milioni di euro si è voluto dedicare un museo al grande artista veneziano scomparso nel 2006. Per gli allestimenti, studiati da Germano Celant, curatore artistico e scientifico della Fondazione è stato previsto un sistema tecnologicamente innovativo, ideato dall’architetto Renzo Piano. Le opere, accumulate in fondo al magazzino, vengono sollevate da un braccio meccanico orientabile che le fa scorrere su delle rotaie poste sulle travi del soffitto portandole davanti al pubblico con un ricambio continuo di nove quadri per volta per una durata di tre ore. Per questo progetto Renzo Piano ha voluto reinterpretare delle modalità già usate dall’artista che utilizzava un sistema di funi e carrucole per spostare ed appendere i suoi pannelli. Si tratta del primo “museo in movimento”dove viene ribaltata la tradizionale fruizione dell’opera d’arte poiché è l’arte ad “accogliere”materialmente il visitatore. Alfredo Bianchini, Presidente della Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, ha dichiarato: “Vedova alle Zattere volle abitare e vi ha abitato per cinquanta anni con Annabianca. Ora vi ritorna con la sua opera nel grande Magazzino del Sale per continuare di qui il suo rapporto dialettico con il mondo.” Vedova creava i suoi lavori in questo luogo magico che gli ispirava un’arte che lui non aveva mai “studiato”. A poca distanza dal Museo si trova lo studio del pittore che sarà inserito nel percorso espositivo e che conserva la maggior parte del lascito dell’artista che verrà interamente esposto a rotazione nel museo.


ANTONELLA COLANINNO




IN RICORDO DI EMILIO VEDOVA


Il panorama dell’arte mondiale perde una delle voci più importanti della figurazione italiana : Emilio Vedova. Nato a Venezia nel 1910 ha iniziato a disegnare come autodidatta negli anni trenta del Novecento, influenzato dalla pittura veneziana e in particolare da Tintoretto. Insieme ad Ernesto Treccani e ad altri artisti contemporanei aderì al gruppo “Corrente” e al “Fronte nuovo delle Arti”. Più che un esteta delle arti, Vedova fu uno sperimentatore di tecniche. Aderì all’inizio al Cubismo, realizzando collages di carta spesso in bianco e nero e cercò di fondere il Cubismo al Futurismo di Boccioni. In seguito, ampliò la gestualità del segno fino a renderlo libero, informale, influenzato dalla action painting americana. E’evidente in questo, la posizione politica e morale dell’artista, la sua adesione alla libertà di pensiero e di espressione contro i soprusi di una società che schiavizza intellettualmente l’uomo. Vedova si ispirò ad una democrazia di espressione legata al bisogno naturale dell’uomo alla libertà. La libertà non è una conquista e neppure un diritto perché non presuppone una condizione, ma è una acquisizione naturale propria dell'esistenza. Per questo, Vedova è pittore dell’informale, di una espressione figurativa in cui la linea esprime la libertà e l' energia interiore delle sue virtù.


ANTONELLA COLANINNO
Ottobre 2006 estratto da “Il Sito dell’Arte”portale d’arte e cultura.








domenica 20 giugno 2010

I CODICI SIMBOLICI DI JANNIS KOUNELLIS


“La valenza sinfonica dell’entità corale induce in ognuno la percezione di una comunità invisibile” (Bruno Corà).


di Antonella Colaninno

Trasformare la percezione degli spazi per reinterpretare i luoghi, creare codici simbolici che rinviano all’idea di un coro “in forma impersonale”. Nella sua installazione Jannis Kounellis immagina un girotondo inanimato di enormi leggii sui quali poggiano fantasiosi spartiti composti non di note musicali ma di strani fantasmi, evocati da vecchi cappotti. I maestosi cavalletti, realizzati con travi di metallo, sorreggono sottili lamine metalliche che inchiodano vecchi cappotti scuri in una serie di strane crocifissioni postmoderne. La “comunità invisibile” si racconta, così, nei grandi  ambienti deserti dove si avverte la presenza di fantasmi di glorie passate. Nella scenografia i vecchi abiti neri restano appesi alle superfici come strani corvi di cui ci sembra persino udire il suono invisibile del loro gracchiare. Negli spazi che accoglievano le orchestre lunghi raggi di metallo si proiettano ora in alto, in uno slancio emotivo che incontra l’abbraccio della cupola fatiscente, testimone silenziosa del logorio del tempo e dell’indifferenza, nella ricerca di una coralità ormai solo apparente che rivive nei luoghi polverosi, nel ricordo di antichi fasti musicali. Nelle stanze vuote, la presenza di sacchi di carbone tagliati da lastre di metallo, come icebergs in un mare di cemento e isole di iuta attraversate dal ghiaccio, nel silenzio di questa scenografia apocalittica Jnnis Kounellis compie il suo viaggio, tra gli echi silenziosi di una musica invisibile e ormai quasi dimenticata.

Pubblicato da Antonella Colaninno




Jannis Kounellis

Teatro Margherita - Piazza del Ferrarese

a cura di Vito Labarile e Anna Maria Maggi

giovedì 3 giugno 2010

FIORI Natura e simbolo dal Seicento a Vangogh


Lawrence Alma-Tadema, A summer offering (1911)



FIORI
Natura e simbolo dal Seicento a Van Gogh.



Forlì, Musei San Domenico



24 gennaio - 20 giugno 2010


Così scrive Rudolf Borchardt, autore tedesco degli anni ’30 del Novecento nel suo libro “Il giardiniere appassionato”: “Ciò che ha commosso l’uomo al punto da renderlo appassionato imitatore, non è la bellezza sovrana dei fiori e delle piante, ma il fatto che niente sulla terra, al pari del fiore, si presenta come una figura semplice, che si avvolge con regolarità attorno a un asse centrale, il cui aspetto riconduce alle leggi dello spazio, la struttura a un ordine fondamentale: il tralcio, la foglia, il calice sono fratelli viventi dell’ovale, del cono, dell’ellisse, del cerchio……Il fiore, la foglia, il tralcio sono miracoli di ordine, l’uomo invece è tutto un disordine, ma proviene dall’ordine e a un ordine nuovamente aspira.”
La mostra dedicata ai fiori ripercorre nei secoli il cammino attraverso la natura e i suoi simboli, partendo dalla attribuzione della Fiasca impagliata celebrata come una delle più elevate espressioni del naturalismo di matrice caravaggesca, attribuita nel tempo a Tommaso Salini, Guido Cagnacci e Carlo Dolci. Il dipinto, conservato nella Pinacoteca comunale di Forlì, fu donato alla città dal conte Pietro Guarini, e fu all’epoca attribuito a Paolo Antonio Barbieri, fratello del Guercino. L’opera rappresenta un bouquet di iris e gladioli sistemati in una fiasca dal collo rotto, metafora del rapporto tra il bello e l’imperfetto, tra una bellezza spirituale e un corpo rovinato. Per la modernità del linguaggio, per il taglio luminoso e per il riferimento alla vanitas, la Fiasca impagliata è stata associata alla Canestra di frutta di Caravaggio, della Pinacoteca Ambrosiana di Milano, secondo quanto sostiene anche Antonio Paolucci. La mostra parte dunque, da una realtà locale per aprirsi ad una riflessione ben più estesa nei riferimenti cronologici e geografici. Ad inaugurare il percorso espositivo, le due sculture dei Bernini e di Vincenzo Vela e i “Campionari di fiori” di Girolamo Pini, per finire alla stanza dedicata al Novecento, al Simbolismo di Previati e alle “sindoni spettrali” di Moreau e Redon.
I fiori sono sensuali creature, morbide efflorescenze dai delicati profumi che “nascondono in sé un’anima da portare alla luce”. Goethe affermava che la pianta è un mistero perché vive tra la luce del cielo che vede fiorire il germoglio e il buio della terra.
Il fiore ha sempre avuto un grande valore simbolico nel tempo. Sin dalla pittura antica, le composizioni di fiori e di frutti indicavano un contesto paradisiaco, si pensi ad esempio, alla pittura paleocristiana, mentre negli antichi erbari prevale il gusto scientifico per la composizione analitica e descrittiva. Il fiore come simbolo di bellezza e di vanità legato all’idea della caducità del tempo si è affermato nella cultura seicentesca per poi diventare emblema del vizio nella metà dell’Ottocento con Baudelaire e i suoi “Fiori del male”. Nel Liberty l’elemento floreale ha dato vita ad un vero e proprio stile dalla linea morbida e sinuosa che si è diffuso in tutto il mondo, pur avendo avuto vita breve. Nelle tavole “Les Fleurs animes”di Grandville, i fiori rappresentano un delicato mondo fiabesco dove la figura femminile è associata all’idea del fiore e rappresentata con gli stessi elementi floreali. Il fiore ha sempre interpretato il proprio tempo, anche in relazione ad altri soggetti come le ghirlande che racchiudono all’interno immagini sacre, ma anche soggetti a carattere profano, come la tela a due mani del "San Giuseppe con il Bambino e Cherubini…” del Camoglino e del Gioacchino Assereto. La ghirlanda dei fiori è nata nei Paesi Bassi ed è stata introdotta in Italia da Jan Brueghel e dal suo allievo Daniel Seghers, pittori della scuola di Anversa. L’età barocca ha visto il trionfo del tema floreale soprattutto a Roma e a Napoli che sono state città per eccellenza del Barocco italiano. Tra le opere del Seicento il “Vaso di vetro, fiori recisi e farfalle” di Daniel Seghers (Anversa 1590 – 1661), un olio su rame del 1640, il “Vaso di fiori con ciclamini, monete, gioielli e pietre preziose sul piano”di Jan Brueghel il vecchio e Jan Brueghel il giovane (1620 – 1625 ca.), e il “Vaso di Fiori e bacile”di Carlo Dolci (olio su tela 1662), con il suo naturalismo delicato e passionale dai toni sensuali e la grande attenzione per il particolare, dalla macchia scura sul tovagliato rosso, alla goccia d’acqua sul bordo dello smalto della bacinella, alla fine cesellatura del vaso. Vorrei dedicare una nota alle tempere su pergamena di Giovanna Garzoni, con la sua natura morta dai toni metafisici e il “Mazzo di fiori entro un vaso ornato di putti e sirene” una composizione floreale che sembra appartenere alle trame di una fine tappezzeria. Tra le opere del Settecento, i “Garofani giganti” (1700) e il “Girasole gigante"(1721) di Bartolomeo Bimbi dai toni malinconici ma intensamente poetici. Il realismo e il Romanticismo ottocentesco lasciano grande spazio al tema floreale che continua ad essere presente nella pittura di genere e come soggetto protagonista della composizione, ad esempio, in opere come l’affascinante olio su tavola di Ferdinand Georg Waldmuller ("Mazzo di fiori in un vaso di porcellana con candelabro e argenteria" del 1839), e la passionale e vibrante opera di Francesco Hayez (1834) dal titolo “Fiori”, una miscellanea di fiori, in un delirio di colori e di profumi. “Ritratto della contessina Antonietta Negroni Prati Morosini” di Francesco Hayez (1858) rappresenta attraverso i fiori la grazia e la delicatezza della bambina, enfatizzate dalla peonia posata a terra e dal fascio tenuto tra il tulle dell’abito bianco. Un delizioso ritratto di un grande maestro che ha tradotto con sottili velature la leggerezza dei petali dei fiori. In “Madre e figlia”(1864-1865) di Frederic Leighton è un’incantevole scena di intimità familiare, i gigli sullo sfondo sono il simbolo di purezza e di una innocente sensualità. Il superbo realismo simbolico del “Ritratto di Anna Alma Tadema”(1883) e de “Il tributo all’estate”di Lawrence Alma Tadema e di Giuseppe Pelizza da Volpedo con il suo “Ricordo di un dolore” esprimono la nuova visione del fiore come simbolo, come testimonianza di un momento di vita intenso ed esclusivo. “Il centauro stanco” di Redon propone un’immagine sfuggente della natura che esce da uno schema logico razionale. La dolce malinconia delle opere di Emilio Longoni rinviano a riferimenti letterari. Il pastello su carta del 1900 dal titolo "Sola” ricorda la pittura di Federico Zandomeneghi nella pennellata densa e luminosa sospesa nella leggerezza di una dimensione dello spirito. “Le capinere” del 1884, probabilmente ispirata al romanzo “Storia di una capinera” del 1871 di Giovanni Verga (Paola Segramora Rivolta) è strutturato sulla morbidezza della linea dove il ramo di pesco e la schiena curva della suora convergono parallele verso il cielo, tagliate orizzontalmente dalla linea del muro. Ancora un ultimo riferimento all’opera di Cesare Tallone “Ritratto della figlia Irene”del 1898-1899, uno splendido ritratto di bambina dallo sguardo intenso e dolcemente malinconico. Il fascio di rose alle spalle sembra quasi accarezzare la figura, sottolineando la sua bellezza ancora acerba.

ANTONELLA COLANINNO