Nudo di donna EGON SCHIELE















mercoledì 30 settembre 2015

LA GRANDE MADRE



di Antonella Colaninno
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento “Gertrude Kasebier e Alice Guy-Blanchè rappresentano la maternità come idillio e fiaba”. “Apparentemente convenzionali, le loro opere nascono in realtà da spiriti liberi e indipendenti”: la Kasebier è la prima fotografa donna ad “affermarsi commercialmente” mentre la Guy-Blanchè è “la prima regista donna, purtroppo tuttora meno nota dei suoi contemporanei, i fratelli Lumière”.

Così esordisce negli spazi espositivi di Palazzo Reale la mostra la Grande Madre, presentando nella prima sala il lavoro cinematografico della Guy-Blanchè (1873) e le fotografie di Gertrude Kasebier (1852) ultima espressione di un cambiamento epocale che avrebbe modificato la maternità non solo nella sua rappresentazione, ma nell’esperienza stessa del suo valore, una trasformazione che ”le forme organiche della scultura di Magdalena Abakanowicz (1930) sembrano presagire […].” La maternità nel Novecento trasferisce il suo idillio “in un intreccio misterioso di tensioni”  entrando nel vortice di un cambiamento di pensiero ormai irrefrenabile e tumultuoso come la potenza di un’inondazione. La mostra la Grande Madre estende la sua riflessione oltre il senso comune per comprendere il valore della maternità tra enfasi e limite alla libertà, nella condanna di un corpo che si modifica tra slanci, speranze e insicurezze. Essa infatti ricostruisce il percorso della donna alla conquista della propria identità in un secolo in cui tanto si è discusso “sul potere negato alle donne e sul potere conquistato dalle donne”, sulla sessualità e sui suoi ruoli, nel mito nascente della “donna meccanica” decantata da Francis Picabia (1879) nel volumetto intitolato “la figlia nata senza madre”. Macchine rappresentate come donne in cui tecnologia ed eros, meccanica e desiderio si mescolano. Tra emancipazione e oppressione culturale, la donna surrealista di Andrè Breton (1896) e Salvador Dalì (1904) così come “la donna 100 teste” di Max Ernst (1891) si scontra con la politica delle nascite di epoca fascista. Con il Fascismo infatti l’identità femminile tende a smarrirsi nell’idea di nazione  e confluisce in una sensibilità collettiva declinata all’idea programmatica di ricostruzione sociale. La donna è deputata alla procreazione al di fuori di una scelta libera e condivisa ma imposta, se pur inconsapevolmente, dall’illusorietà dell’inizio di una nuova epoca. La rivendicazione del femminismo e della centralità del corpo della donna come elemento di natura è invece la riflessione che passa attraverso il lavoro di Marisa Merz (1926), Carla Accardi (1924) e Yoko Ono (1933). Nei collages di Barbara Kruger (1945) e Ketty La Rocca (1976) si vuole invece decostruire l’immagine della donna e della madre creata dai mass-media e “portare l’attenzione sulle disuguaglianze di genere […] per svelare criticamente in che modo le donne vengono condizionate a vedere se stesse […] e come le immagini e il linguaggio rafforzano le norme che impongono il loro ruolo nella società”. Negli anni ’90 gli scatti della fotografa olandese Rineke Dijkstra (1959) ritraggono madri e figli nudi a poche ore dal parto, mettendo in mostra così gli aspetti più fragili e delicati della maternità e dei cambiamenti del corpo che si espone senza barriere culturali. I soggetti nudi posano disarmati “in atteggiamenti naturali che rivelano la loro personalità e le loro emozioni […]”. 


L’artista “da una rappresentazione non sentimentale del parto, cogliendo la complessa mescolanza di emozioni provate dalle neomadri. Il prezzo fisico della maternità è ben visibile sui corpi di queste donne, mentre i loro volti esprimono stanchezza, orgoglio e una naturale protettività verso i loro bambini”.

In “It’s the mother” l’artista svedese Nathalie Djurberg (1978) riprende il concetto freudiano dell’utero come heimlich cioè come casa, “un desiderio di regressione al conforto e alla familiarità del grembo materno”,  per questo nel video i cinque bambini di creta “si ricacciano a forza nel suo utero ignorando le sue proteste” lasciando emergere una sensibilità meccanica e “post umana”. Il fotografo ritrattista americano Nicholas Nixon (1947) realizza, a partire dal 1975, la prima di una serie di foto dedicate alle Brown Sisters. 

Una sequenza di ritratti che terminerà nel 2014 nella quale le sorelle Brown (cognate e moglie dell’artista) poseranno sempre nello stesso ordine di anno in anno, sfidando il tempo e mettendo a nudo il loro viso segnato dalle rughe che si affollano e si diffondono tra le pieghe della pelle. Nixon definì questa produzione un “catalogo in progress di anime e corpi umani”, “una narrazione trasversale, costruita su affinità elettive e legami affettivi […]”. La mostra la Grande Madre comprende un gruppo corposo ed eterogeneo di artisti che, tra pittura, scultura, film e video arte, raccontano tutte le declinazioni di un’epoca affrontando gli sviluppi della scienza  e i cambiamenti culturali e sociali che da questo sono derivati. “Un nuovo immaginario scientifico in cui tecnologia e biologia si fondono aprendo nuove prospettive attraverso le quali superare vecchie distinzioni sessuali e di genere. […] si prefigura una nuova condizione post-umana e si spalancano nuove frontiere della riproduzione”. 

“Epilogo: la perdita, l’assenza, il ricordo” chiude il percorso espositivo con una riflessione di Roland Barthes (1915), critico letterario e filosofo francese, che espone nell’ultima sala. Secondo Barthes, autore di La chambre claire, 1980, uno tra i testi di fotografia più letti, la fotografia rivela un legame inscindibile dalla sfera sentimentale e sottolinea le sue “qualità soggettive ed emotive”. 

Il recupero dell’immagine e del ricordo attraverso la fotografia spiega il femminismo della scrittrice Virginia Woolf (1882) (che fu anche una fotografa), che parte non a caso, dal recupero della figura materna. “[…] la scrittrice avrebbe inserito la memoria della madre in alcune foto ufficiali, come quella in cui posa per Vogue con indosso gli abiti di lei, quasi a volerne perpetuare, anche solo simbolicamente, la presenza attraverso nuove immagini.”


Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Gillian Wearing, Self-Portrait as My Mother Jean Gregory, 2003; autoritratto della regista Alice Guy-Blanchè; 2 scatti della fotografa Rineke Dijkstra; immagine estratta dal video dell’artista Nathalia Djurberg; The Brown Sisters di Nicholas Nixon; Roland Barthes; la scrittrice Virginia Woolf; manifesti politici.

LA GRANDE MADRE
26 agosto – 26 novembre
A cura di Massimiliano Gioni
Palazzo Reale, Milano
Mostra visitata il 24 settembre

lunedì 28 settembre 2015

ANSELM KIEFER I SETTE PALAZZI CELESTI 2004-2015




di Antonella Colaninno

I Sette Palazzi Celesti di Anselm Kiefer è un’installazione site-specific ispirata ai Palazzi decritti nell’antico trattato ebraico Sefer Hechalot, il Libro dei Palazzi/Santuari  risalente al IV-V secolo d. C. Esposta dal 2004 presso l’Hangar Bicocca di Milano, oggi l’installazione si presenta in un nuovo allestimento reso percorribile al pubblico, che si arricchisce di 5 grandi tele inedite. E’ possibile infatti fruire dell’opera nelle differenti prospettive ed entrare persino all’interno delle torri, strutture  di cemento dal peso di 90 tonnellate ciascuna, alte dai 14 ai 18 metri. Si è protagonisti di un’esperienza suggestiva, in un percorso ascendente che guida il nostro sguardo all’interno della torre verso mete spirituali, un cammino simbolico di iniziazione come si racconta nelle antiche tradizioni ebraiche. L’opera di Kiefer rappresenta il fallimento delle ambizioni umane che hanno cercato di elevarsi ad uno stadio divino, che hanno portato alle guerre e alle conseguenti rovine , ma sono anche la speranza di un “futuro possibile da cui l’artista ci invita a guardare il nostro presente”. Le cinque opere pittoriche  sono state realizzate dal 2009 al 2013 


2013 (Jaipur,2009; Cette obscure clartè qui tombe des ètoiles 1, 2011; Cette obscure ciartè qui tombe des ètoiles 2, 2011; Alchemia, 2012; Die Deutsche Heilslinie, 2012-2013). 

Paesaggi desertici e notturni  dove la terra “appare del tutto sterile”, resi da una raffinata stesura materica che “oltrepassa il limite tra pittura e scultura e sembra invitare l’osservatore a entrare nel suo mondo”. In questi paesaggi, dove la presenza umana appare negata, l’artista inserisce dei semi di girasole, forse un richiamo alla futura rinascita e fioritura di una nuova vita. 

Die Deutsche Heilslinie è l’opera più grande della serie e rappresenta simbolicamente “la storia della salvezza tedesca”.  La figura solitaria di un uomo di spalle osserva sullo sfondo il paesaggio attraversato per l’intera superficie da un arcobaleno che collega idealmente cielo e terra. 

Sotto l’arcobaleno Kiefer trascrive i nomi di quei pensatori tedeschi che, dall’Illuminismo a Karl Marx, hanno sostenuto l’idea di salvezza “attraverso l’azione di un leader” e attraverso il riconoscimento della propria identità individuale. Anselm Kiefer nasce a Donaueschingen in Germania nel 1945. Realizza le sue prime opere nella seconda metà degli anni ’60, ispirandosi al lavoro dell’artista Joseph Beuys. Il suo primo quadro di grandi dimensioni risale al 1971, una rilettura della recente storia tedesca “attraverso riferimenti alla filosofia e alla mitologia teutonica”. “Intraprende lunghi viaggi in Egitto, Yemen, Brasile, India e America Centrale alla ricerca dei segni delle antiche civiltà scomparse”, e durante un viaggio a Gerusalemme, resta affascinato dal misticismo della Cabala. Le suggestioni di questi viaggi e il fascino delle grandi costruzioni architettoniche si tradurranno pittoricamente nelle rovine simbolo del fallimento delle ambizioni dell’umanità. Nel sud della Francia a Barjac, Kiefer ha realizzato un museo personale trasformando in casa-studio lo spazio di una fabbrica della seta di 350.000 metri quadrati: qui infatti sono custodite alcune delle sue grandi installazioni.  L’artista oggi vive e lavora tra Croissy e Parigi. 
Pubblicato da Antonella Colaninno

Foto di Antonella Colaninno 
Conferenza per la stampa giovedì 24 settembre 2015, ore 11.00 Hangar Bicocca, Milano