di Antonella Colaninno
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento “Gertrude Kasebier e Alice Guy-Blanchè
rappresentano la maternità come idillio e fiaba”. “Apparentemente
convenzionali, le loro opere nascono in realtà da spiriti liberi e
indipendenti”: la Kasebier è la prima fotografa donna ad “affermarsi commercialmente” mentre la
Guy-Blanchè è “la prima regista donna,
purtroppo tuttora meno nota dei suoi contemporanei, i fratelli Lumière”.
Così esordisce negli spazi espositivi di
Palazzo Reale la mostra la Grande Madre, presentando nella prima sala il lavoro
cinematografico della Guy-Blanchè (1873) e le fotografie di Gertrude Kasebier (1852)
ultima espressione di un cambiamento epocale che avrebbe modificato la
maternità non solo nella sua rappresentazione, ma nell’esperienza stessa del
suo valore, una trasformazione che ”le
forme organiche della scultura di Magdalena Abakanowicz (1930) sembrano
presagire […].” La maternità nel Novecento trasferisce il suo idillio “in un intreccio misterioso di tensioni” entrando nel vortice di un cambiamento di
pensiero ormai irrefrenabile e tumultuoso come la potenza di un’inondazione. La
mostra la Grande Madre estende la sua riflessione oltre il senso comune per
comprendere il valore della maternità tra enfasi e limite alla libertà, nella
condanna di un corpo che si modifica tra slanci, speranze e insicurezze. Essa
infatti ricostruisce il percorso della donna alla conquista della propria identità
in un secolo in cui tanto si è discusso “sul
potere negato alle donne e sul potere conquistato dalle donne”, sulla sessualità
e sui suoi ruoli, nel mito nascente della “donna
meccanica” decantata da Francis Picabia (1879) nel volumetto intitolato “la figlia nata senza madre”. Macchine
rappresentate come donne in cui tecnologia ed eros, meccanica e desiderio si
mescolano. Tra emancipazione e oppressione culturale, la donna surrealista di
Andrè Breton (1896) e Salvador Dalì (1904) così come “la donna 100 teste” di Max Ernst (1891) si scontra con la politica
delle nascite di epoca fascista. Con il Fascismo infatti l’identità femminile
tende a smarrirsi nell’idea di nazione e
confluisce in una sensibilità collettiva declinata all’idea programmatica di
ricostruzione sociale. La donna è deputata alla procreazione al di fuori di una
scelta libera e condivisa ma imposta, se pur inconsapevolmente, dall’illusorietà
dell’inizio di una nuova epoca. La rivendicazione del femminismo e della
centralità del corpo della donna come elemento di natura è invece la
riflessione che passa attraverso il lavoro di Marisa Merz (1926), Carla Accardi
(1924) e Yoko Ono (1933). Nei collages di Barbara Kruger (1945) e Ketty La
Rocca (1976) si vuole invece decostruire l’immagine della donna e della madre creata
dai mass-media e “portare l’attenzione
sulle disuguaglianze di genere […] per svelare criticamente in che modo le
donne vengono condizionate a vedere se stesse […] e come le immagini e il
linguaggio rafforzano le norme che impongono il loro ruolo nella società”.
Negli anni ’90 gli scatti della fotografa olandese Rineke Dijkstra (1959) ritraggono
madri e figli nudi a poche ore dal parto, mettendo in mostra così gli aspetti
più fragili e delicati della maternità e dei cambiamenti del corpo che si
espone senza barriere culturali. I soggetti nudi posano disarmati “in atteggiamenti naturali che rivelano la
loro personalità e le loro emozioni […]”.
L’artista “da una rappresentazione non sentimentale del parto, cogliendo la
complessa mescolanza di emozioni provate dalle neomadri. Il prezzo fisico della
maternità è ben visibile sui corpi di queste donne, mentre i loro volti
esprimono stanchezza, orgoglio e una naturale protettività verso i loro bambini”.
In “It’s the mother” l’artista
svedese Nathalie Djurberg (1978) riprende il concetto freudiano dell’utero come
heimlich cioè come casa, “un desiderio di
regressione al conforto e alla familiarità del grembo materno”, per questo nel video i cinque bambini di creta
“si ricacciano a forza nel suo utero
ignorando le sue proteste” lasciando emergere una sensibilità meccanica e “post
umana”. Il fotografo ritrattista
americano Nicholas Nixon (1947) realizza, a partire dal 1975, la prima di una serie di foto dedicate alle Brown Sisters.
Una sequenza di ritratti che
terminerà nel 2014 nella quale le sorelle Brown (cognate e moglie dell’artista)
poseranno sempre nello stesso ordine di anno in anno, sfidando il tempo e
mettendo a nudo il loro viso segnato dalle rughe che si affollano e si
diffondono tra le pieghe della pelle. Nixon definì questa produzione un “catalogo in progress di anime e corpi umani”,
“una narrazione trasversale, costruita su affinità elettive e legami affettivi
[…]”. La mostra la Grande Madre comprende un gruppo corposo ed eterogeneo
di artisti che, tra pittura, scultura, film e video arte, raccontano tutte le
declinazioni di un’epoca affrontando gli sviluppi della scienza e i cambiamenti culturali e sociali che da
questo sono derivati. “Un nuovo
immaginario scientifico in cui tecnologia e biologia si fondono aprendo nuove
prospettive attraverso le quali superare vecchie distinzioni sessuali e di
genere. […] si prefigura una nuova condizione post-umana e si spalancano nuove
frontiere della riproduzione”.
“Epilogo: la perdita, l’assenza, il ricordo”
chiude il percorso espositivo con una riflessione di Roland Barthes (1915),
critico letterario e filosofo francese, che espone nell’ultima sala. Secondo
Barthes, autore di La chambre claire, 1980, uno tra i testi di fotografia più
letti, la fotografia rivela un legame inscindibile dalla sfera sentimentale e
sottolinea le sue “qualità soggettive ed
emotive”.
Il recupero dell’immagine e del ricordo attraverso la fotografia spiega
il femminismo della scrittrice Virginia Woolf (1882) (che fu anche una
fotografa), che parte non a caso, dal recupero della figura materna. “[…] la scrittrice avrebbe inserito la
memoria della madre in alcune foto ufficiali, come quella in cui posa per Vogue
con indosso gli abiti di lei, quasi a volerne perpetuare, anche solo
simbolicamente, la presenza attraverso nuove immagini.”
Pubblicato da Antonella Colaninno
In foto: Gillian Wearing, Self-Portrait as My Mother Jean Gregory, 2003; autoritratto della regista Alice Guy-Blanchè; 2 scatti della fotografa Rineke Dijkstra; immagine estratta dal video dell’artista Nathalia Djurberg; The Brown Sisters di Nicholas Nixon; Roland Barthes; la scrittrice Virginia Woolf; manifesti politici.
LA GRANDE MADRE
26 agosto – 26 novembre
A cura di Massimiliano Gioni
Palazzo Reale, Milano
Mostra visitata il 24 settembre