Nudo di donna EGON SCHIELE















sabato 23 aprile 2011

AGAMENNONE E GLI ALTRI. GLI EROI DI OMERO NELLA CULTURA FIGURATIVA DELLA PUGLIA ANTICA



Una mostra archeologica che, in pochi ma importanti esemplari vascolari, documenta la sopravvivenza del mito di Agamennone in Occidente e vuole risalire, attraverso l’iconografia, ai caratteri salienti sia dell’ambiente di provenienza e sia di quello ricettivo che li ha adottati. Nel Museo Nazionale Archeologico – Castello Normanno Svevo di Gioia del Colle (Ba) sono esposti alcuni reperti di vasi attici figurati risalenti al VI-V secolo a. C, databili cioè, tra età arcaica ed età classica, importati dalla Grecia e utilizzati come corredo funerario nelle tombe della Puglia antica, sia di ambiente italiota che indigeno, nelle zone di Monte Sannace, Noicattaro, Gravina - Botromagno, Rutigliano, Ruvo e Taranto. Tra la fine del VI secolo e i primi del V secolo a. C., si diffonde in Puglia l’uso di seppellire accanto agli inumati, vasi attici con rappresentazioni del racconto omerico. Una tradizione giustificata dal divieto di seppellire armi, ma che sopperisce a questa mancanza sottolineando così, attraverso la narrazione omerica desunta dalla letteratura e dal teatro, l’importanza del ruolo militare maschile. Questi oggetti sono il racconto figurato dell’epopea dell’eroe greco, rappresentano il patrimonio della cultura figurativa apula, e raccontano il gusto e il pensiero di una “società di tipo gentilizio”. Tra gli esemplari in mostra c'è un Lekythos attico a fondo bianco, proveniente dal Museo Archeologico Nazionale di Taranto, risalente al VI-V secolo a. C., che illustra la “Contesa tra Aiace e Odisseo per le armi di Achille”; e l’Hydria proto lucana a figure rosse, proveniente dalla Fondazione Pomarici Santomasi, rinvenuta in una tomba di Gravina in Puglia. Il vaso, datato tra il 420 e il 400 a. C., illustra la “Morte di Patroclo”ed è stato realizzato dal pittore di Amykos. La sua eleganza formale e la modernità del linguaggio caratterizzano la particolare bellezza del manufatto.

Scritto da Antonella Colaninno
 
 
Dal 4 al 30 aprile 2011
Museo Nazionale Archeologico - Castello Normanno Svevo
Gioia del Colle (Ba)

domenica 17 aprile 2011

GIACOMO MANZU’

                                            
                                                                 Donna distesa, 1976
                                                                      Amanti II, 1978
                                                             
“Il suo pensiero fisso era il suo studio, la sua ispirazione e la necessità di esprimere in scultura quello che lui sentiva nel profondo del cuore…riuscire a dare forma alle sue emozioni. Così era il mio Giacomo, forte e deciso”.

Inge Manzù

“La prima volta che vidi i cardinali fu in San Pietro nel 1934: mi impressionarono per le loro masse rigide, immobili, eppure vibranti di spiritualità compressa. Li vedevo come tante statue, una serie di cubi allineati e l’impulso a creare nella scultura una mia versione di quella realtà ineffabile, fu irresistibile”.
                                                                                        cardinale seduto,1987
I cardinali di Giacomo Manzù (Bergamo, 1908 – Ardea, 1991) sono figure leggere avvolte di spiritualità. Disegnati in bizzarre tonache svolazzanti, essi sono la testimonianza di un'arte felice, miraggio di un'eternità che si consuma nel presente. I personaggi della scultura e dei disegni erotici raccontano l'esperienza umana dell'artista e la storia d’amore con la compagna di vita Inge. I ritratti, le nature morte e le non meno famose sedie rappresentano invece il ricordo nostalgico della propria infanzia. Lo stesso Manzù affermava infatti che nelle sue sculture “[…] vi sono le pieghe che mi perseguitano e, in ultimo, tutti i sacrifici con i quali vivono le mie speranze." Le qualità narranti della scultura sviluppano trame originali di un racconto del non finito. Il plasticismo si comprime nei bassorilievi, diventa evanescente nelle figure dei cardinali, si disperde nei ritratti, rivendica la propria solidità nelle nature morte e gioca con gli equilibri in opere come Ragazza sdraiata (1985) e Tebe che cade (1985-1989). In Testa di Medusa (1946-1999) Manzù coglie la presenza di un’emozione che appare fragile e delicata, mostrando la sua forza espressiva a tratti surreale. Un dinamismo quasi cinematografico, caratterizza i bassorilievi dei pannelli della Porta della Morte in San Pietro a Roma, della Porta dell’Amore del Duomo di Salisburgo e della Porta della Pace e della Guerra nella Chiesa di St. Laurenz a Rotterdam. In Apertura del Concilio Vaticano II (facciata posteriore della Porta della Morte in San Pietro), i cardinali si presentano come figure morbide nello spazio, assorte in meditazione, espressione di una classicità che passando attraverso la pittura giottesca e il Gotico Internazionale, rivive oggi nelle famose e disincantate Turcate di Aldo Mondino. Giacomo Manzù è stato anche un pregevole illustratore; alcuni suoi disegni accompagnano le poesie di Giuseppe Ungaretti nel volume Erbe, mentre sue acqueforti illustrano le Georgiche di Virgilio (1947). Alcune sue litografie illustrano infine il libro Il falso e vero verde di Salvatore Quasimodo (1954). La serie di inchiostri del 1977 dal titolo Amanti racconta l’esperienza erotica del suo amore per Inge Schabel, “ballerina dell’Opera e modella dei corsi dell’Accademia di Salisburgo”.“Quando ci siamo incontrati, un raggio di sole ha trafitto il mio volto; Inge mia. Penso, che né la rosa, né la gardenia e nemmeno l’orchidea, assomigliano a te: forse è il giglio che è come il tuo sguardo, Amata mia”!. (G. M. 4 aprile 1977). Nella serie di inchiostri su carta e di matite dedicati a Inge Manzù si esprime attraverso un erotismo esplicito come in Ballerina (1954); Profilo (1955); Passo di danza (1955); Ritratto di Inge (Busto di Inge) (matita, 1957); e le bellissime Ninfee (Donne distese), una matita del 1960.  Amanti è il titolo di due sculture in bronzo realizzate dall'artista nel 1966 e nel 1981 che rivelano, nel plasticismo morbido, l'enfasi di un amore libero e incondizionato: “I due amanti travolti dalla spinta d’amore, solo il sesso era la ragione dei movimenti che i due corpi si avvolgevano nelle coperte, facendo dei due esseri e le pieghe un uragano di azioni, rapide e sconvolgenti come le grandi nubi nella furia delle acque e dei venti, quando il tempo si infuria sul mare. Poi i due corpi e le pieghe si placano, ed il sole fa luce sul sonno degli amanti”. Un’importante attività di scenografo impegnerà Manzù negli anni ’60 del Novecento accanto al musicista e compositore Igor Stravinskij nell’ Edipo Re al Teatro dell’Opera di Roma.

“La scultura di Manzù è dunque totalmente in questo tempo, per l’antitesi che costituisce, e totalmente fuori di questo tempo, perché non è la conciliazione della tesi che questo tempo rappresenta”. (Cesare Brandi).


Scritto da Antonella Colaninno


Manzù l’artista.

Palazzo Granafei – Nervegna
Brindisi, 18 marzo – 22 maggio 2011
a cura di Giulia Manzù

martedì 12 aprile 2011

IL LIBRO DELLA GIOIA PERPETUA EMANUELE TREVI



“Ancora non sapevo,[… ] che il contenuto di quella busta avrebbe assorbito, nei mesi avvenire, la maggior parte delle mie energie, della mia capacità di attenzione, delle mie riserve di empatia e compassione”. “E’ stato questo il mio primo incontro con il Libro di Clara e Riki”.

L’Humana Fragilitas di Salvator Rosa è il dipinto che ha ispirato il romanzo di Emanuele Trevi. La presenza dell’angelo della morte nell’idillio della fanciullezza, prelude all’inesorabilità del tempo e diventa un’ombra vigile in questo viaggio misterioso del quale non si conosce il ritorno.

Un intreccio di storie tra realtà e finzione. Un romanzo dallo stile elegante, un racconto nel racconto, quello di Chiara e Riki e del libro scritto da una bambina di terza elementare, senza pretese di significati se non la spontaneità di esprimere la sfera invisibile del proprio mondo interiore.

Un tranquillo viaggio di lavoro a Napoli per un incontro letterario si rivelerà al protagonista“un viaggio iniziatico”nel “paese” della “gioia perpetua.”Questo luogo senza tempo, dove grandi e bambini vivono a mezz’aria sul mondo, si chiama Lossiniere, “un paesello ricoperto di neve”dove “i ragazzi scivolano con la loro slitta giù per la vallata.” Un mondo nel quale intelligenza e sensibilità rappresentano una condizione di grazia estranea al protagonista, che giace in uno stato di assenza prolungata nel quale perde la consapevolezza di sé e l’interesse verso ciò che lo circonda. Uno stato nel quale, come egli stesso afferma, non si prova nulla, “nemmeno il sentimento dello spazio o quello del tempo”. Lossiniere è un paese dal nome vagamente francese, qui per magia le fatiche del vivere si trasformano in allegria e il tempo sembra non avere né inizio e né fine, sospeso nell’eterna leggerezza. Lo scrittore, protagonista di uno strano gioco delle parti, diventa il lettore di una storia che desterà dal letargo la sua incapacità di sentire, la sua strana malattia del sonno. La gioia perpetua è una “condizione di appagamento”, metafora dell’essenza dell’equilibrio dell’esistenza, che conosce il dolore e la felicità e sa accettare l’instabilità degli equilibri, "l’agitarsi dei contrari”, “il gorgo degli imprevisti”e la saggezza dell’essere. 

Scritto da Antonella Colaninno


Emanuele Trevi (Roma, 1964) è uno scrittore e critico letterario. Il suo ultimo romanzo, Il libro della gioia perpetua edito da Rizzoli è stato candidato al Premio Strega 2010. Collabora con giornali e riviste tra cui i quotidiani nazionali La Repubblica, La Stampa e il Manifesto. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo Istruzioni per l'uso del lupo (1994), Musica distante (1997), I cani del nulla (2003), Senza verso (2004), L'onda del porto (2005). E' sposato con la scrittrice Chiara Gamberale.



domenica 10 aprile 2011

UN BATTITO D’ALI PER LA CITTA’ LA CASA DI FARFALLE DI BIK VAN DER POL



                                                 
      "Are you really sure that a floor can't also be a ceiling?”
Un leggero battito d’ali capace di modificare, se pur in minima parte, la condizione iniziale di un fenomeno ambientale. “L’energia di un battito può smuovere il mondo”, una certezza dunque, nella quale la scienza incontra la creatività: questa è la casa di farfalle di Bik Van der Pol, un progetto di eco architettura che si ispira alla Farnsworth House (1951) dell’architetto tedesco Mies Van der Rohe, una casa di vetro che mette in relazione interno ed esterno.

Il progetto di Bik Van der Pol è “una casa provvisoria per le farfalle”, protagoniste di un’idea di cambiamento. I visitatori entrano nella casa serra con le pareti di vetro, immersi in una micro natura tra una varietà di bellissime farfalle che volano libere in questo habitat speciale costruito a misura per loro. La sede principale del MACRO progettata dall’architetto Odile Decq ospita il progetto di Bik Van der Pol permettendo ai visitatori del museo di godere di uno spettacolo della natura dall’interno delle sale espositive. Per la scienza, le farfalle sono un sintomo vivente del degrado ambientale che con il proprio battito di ali producono “un piccolo cambiamento nella condizione iniziale del sistema, causando una catena di eventi che conducono ad un’alterazione su ampia scala”. La casa di farfalle è il progetto vincitore di Enel Contemporanea 2010, lanciato da Enel nel 2007 per promuovere una riflessione sul valore dell’energia visto dalla parte dell’arte e creare una campagna di sensibilizzazione. In questa quarta edizione Enel Contemporanea si avvale della collaborazione del MACRO, Museo di Arte Contemporanea di Roma dando vita all’Enel Contemporanea Award 2010, a cui hanno partecipato sette artisti internazionali ognuno con un’opera inedita ispirata alla tematica energetica. Il progetto vincitore del duo olandese Bik Van der Pol ha per titolo: “Are you really sure that a floor can’t also be a ceiling?” lavoro originale che entrerà a far parte della collezione permanente del museo romano.

Scritto da Antonella Colaninno

La sede principale del MACRO è stata progettata per la nuova sezione, dall’architetto Odile Decq. Un progetto museale per la promozione dell’arte contemporanea sotto la direzione di Luca Massimo Barbera. La collezione del museo si sviluppa per percorsi tematici e occupa una superficie espositiva di 4350 mq. che si somma agli spazi preesistenti e si unisce alle sedi espositive del MACRO Testaccio.

sabato 9 aprile 2011

LORENZO LOTTO

                                          
     La Castità mette in fuga Cupido e Venere, 1529-1530
                         
 Nozze mistiche di santa Caterina con i santi Girolamo, Giorgio, Sebastiano, Nicola di Bari e Antonio abate, 1524
                        Madonna col Bambino e i santi Caterina d'Alessandria e Tommaso, 1528-1530


"Lorenzo Lotto non dipinge il trionfo dell’uomo sulle cose circostanti; ci presenta gente che domanda consolazioni dalla religione, a calmi pensieri, all’amicizia e agli affetti. Ci guarda dalle tele come chiedesse la carità di un po’ di simpatia.” (Bernard Berenson, Pittori veneziani del Rinascimento, 1894).


Lorenzo Lotto (Venezia, 1480 - Loreto, 1556) è considerato il pittore delle atmosfere e di una pittura atmosferica. Artista schivo e solitario, giunge a Roma nel 1509 lasciando gli ambienti della provincia veneta e marchigiana. Marche, Lombardia e Veneto conservano ancora oggi la maggior parte delle opere dell’autore, troppo moderno nel suo linguaggio per essere “estraneo”al suo tempo e troppo sensibile nella sua finezza pittorica per essere inserito in una precisa definizione storica. Fu autore di ritratti, pale d’altare, opere religiose e profane caratterizzate da una luce torbida, velata di mistero e di dolcezza malinconica che consente attraverso la realtà di giungere alla dimensione spirituale delle cose. 
Le inquadrature a nicchia chiudono ed enfatizzano le scene sacre di gusto naturalistico, tra “la mischia un po’ plebea, di corpi e comportamenti obbligati”che pur denotano una propria originale individualità in un senso di attesa. Volumi morbidi e leggeri colti nella naturalezza di una posa non retorica e corpi pudichi nello svelare le loro emozioni interpretano un linguaggio moderno, distante nella narrazione dai canoni estetici della classicità nel quale la critica ha voluto cogliere riferimenti protocaravaggeschi nel particolare uso della luce e direi anche, nel tentativo di superare un naturalismo di genere a vantaggio di una narrazione spontanea e sciolta dal rigore formale. Possiamo cogliere nel biancore marmoreo di alcune figure, come negli sfondi scuri e nei riferimenti paesaggistici echi della pittura fiamminga quattrocentesca (I santi Lucia e Vincenzo Ferrer e i Santi Caterina da Siena e Sigismondo nel Polittico di San Domenico, 1506-1508); ma anche riferimenti a Tiziano, Raffaello e a Giovanni Bellini nella Madonna col Bambino e i santi Caterina d’Alessandria e Tommaso, 1528-1530. Una pittura “concitata”(Marco Vallora) per una immagine che scorre in un' azione comune sottesa e rarefatta attraverso una gestualità autoreferenziale. Quella di Lorenzo Lotto è sicuramente la pittura delle relazioni umane, colta e commovente, poetica, intellettuale e accattivante nei ritratti e sensuale e maliziosa nella pittura profana (Venere con Cupido mingente, 1540-1541; Apollo addormentato con le muse in fuga, 1545-1549; La Castità mette in fuga Cupido e Venere, 1529-1530). Lorenzo Lotto fu un’artista molto discusso nel suo tempo; Pietro Aretino, in una lettera indirizzata all'artista, lo definiva “superato nel dipingere”; mentre non fu molto considerato dalla critica e dal mercato contemporaneo: le sue biografie complete furono quelle di Carlo Ridolfi “Le meraviglie dell’arte”del 1648, e quella del 1871 di Crowe e Cavalcasello, nonostante sue opere fossero presenti in importanti collezioni reali in Italia e all’estero. Solo nel 1900 Lotto sarà annoverato tra i pittori più importanti della pittura veneta del 1500. La mostra in corso alle Scuderie del Quirinale intitolata semplicemente Lorenzo Lotto, a cura di Giovanni Federico Villa è un interessante percorso che consente di ammirare uno tra gli artisti più rappresentativi delle pittura del Rinascimento italiano. Un’importante vetrina che accompagna il visitatore tra le opere religiose e quelle a carattere profano attraverso capolavori come l’Annunciazione, 1534-1535, opera di originale sintesi narrativa, e il Polittico di San Domenico, 1506-1508 con la sua fusione tra classicismo e modernità e ancora l’Elemosina di Sant’Antonio, 1542, e la Madonna in trono col Bambino e i santi Giuseppe, Bernardino da Siena, Giovanni Battista e Antonio abate e angeli (Pala di San Bernardino), 1521. Infine, la raffinatezza di opere come Madonna col Bambino e i santi Caterina d’Alessandria e Tommaso, 1528-1530, e le Nozze mistiche di Santa Caterina con i santi Girolamo, Giorgio, Sebastiano, Nicola di Bari e Antonio abate. Tra i ritratti, il celeberrimo Ritratto del vescovo Bernardo de’ Rossi, 1505; il Triplice ritratto di orefice (Bartolomeo Carpan?), 1530, il Ritratto di uomo con cappello di feltro, 1541. Tra le opere a soggetto profano, La Venere con Cupido mingente, 1540-1541 che svela una lettura fortemente allegorica e simbolica e che consente di rilevare al meglio quella “dialettica tra virtus e voluptas”che caratterizza questo genere di lavori, e ancora le sensuali interpretazioni di opere come La Castità mette in fuga Cupido e Venere, 1529-1530, e La Fortuna infelice abbattuta dalla Fortezza, 1545-1549.

Scritto da Antonella Colaninno



Lorenzo Lotto
Roma, Scuderie del Quirinale
2 marzo – 12 giugno 2011
a cura di Giovanni Carlo Federico Villa

catalogo edito da Silvana Editoriale

sabato 2 aprile 2011

TAMARA DE LEMPICKA THE PARISIANIZED POLONAISE, LA POLACCA DIVENUTA PARIGINA. (Vanity Fair, 1927).



Tamara de Lempicka


Rafaela sur fond vert (Le rève), 1927


Un “curioso melange di estremo modernismo e purezza classica”(Magdeleine Dayot , 1935).

Donna simbolo di un’epoca, artista di grande personalità e di talento umano, Tamara de Lempicka (1898, Varsavia - 1980) rappresenta l’ultima diva di una società sul viale del tramonto. “Io sono nata per donare la mia opera al mondo, non a una persona sola; la mia opera mi ha dato fama, fortuna e un’enorme felicità…io sono la mia opera e la mia opera sono io” (Tam. de Lemp.).Tenace e ambiziosa, giunse in Francia all'età di 20 anni come profuga russa. Affermava che “il successo è arrivare a fare ciò che si desidera” e che “…i grandi cambiamenti nell’arte non avvengono per evoluzione, ma avvengono per rivoluzione”. Nel suo modernismo dèco confluiscono i diversi linguaggi dell’arte nei quali la classicità trova una nuova chiave di lettura nella contemporaneità. La sua arte è lo specchio di una rivoluzione del costume femminile e di una femminilità che si svela, liberata da ogni pregiudizio. I suoi corpi rappresentano sensualità e erotismo, nelle sfumature languide e nelle forme avvenenti, enfatizzate dal gioco intrigante di luci e di ombre. Le sue donne sono morbide architetture di femminilità, dalla carnalità raffinata e decadente che esalta la pelle di seta e gli sguardi languidi e misteriosi. Tamara de Lempicka. La Regina del Moderno a cura di Gioia Mori è il titolo della mostra allestita a Roma nel Complesso Monumentale del Vittoriano. Opere dagli anni ‘20 agli anni ’50 del Novecento raccontano lo stile di una donna e di un’artista unica nel suo genere. Donna di grande talento e affascinante femme fatale, Tamara de Lempicka fu un’artista internazionale per il suo stile cosmopolita e per l’attenzione che la critica di tutto il mondo rivolse alla sua arte. A Parigi Tamara frequentò i futuristi e conobbe Prampolini. Il suo incontro con Marinetti, solo per una casuale fatalità, impedì ai due di realizzare l’incendio del Louvre. Amante di D’Annunzio e modella elegantissima negli abiti di Marcel Rochas e Lucien Lelong, fu anche disegnatrice di modelli. Al suo lavoro di stilista saranno dedicate le copertine delle più prestigiose riviste di moda tedesche. Nel 1929 giunse in America e i grattacieli delle metropoli americane ispirarono i soggetti di alcuni suoi quadri (New York, 1929 – Nu aux buildings, 1930), che prenderanno spunto anche dalla grafica pubblicitaria della cartellonistica contemporanea. La pittura di Tamara de Lempicka, nell’eleganza dei suoi accostamenti cromatici, si ispira ai grandi maestri del passato, ma soltanto a lei si possono ricondurre la vivacità e la densità cromatica dei bianchi, dei viola, dei gialli e degli aranci, dei rossi fiammanti delle automobili, dei “blu Lempicka”, dei verdi freschi, dei grigi acciaio e dei neri. Classicità e modernità, plasticismo e astrattismo uniscono, in una perfetta armonia, il paesaggio contemporaneo e metropolitano ispirato dalla danza, dalla musica, dalla moda, dalla letteratura e dall'arte come certezze dell’effimero. Carattere e femminilità, temperamento e sensualità rappresentano il potere della seduzione del corpo e della mente delle donne, affascinanti e morbide creature dal taglio spigoloso. La Lempicka libera la femminilità dagli stereotipi, è la rivoluzione della donna che trova la propria indipendenza nell'affermazione sul lavoro e nelle attività culturali: la Lempicka taglia i capelli alle sue modelle che fumano e guidano l’automobile e soprattutto, non nascondono la propria omosessualità. La stessa Lempicka fu bisessuale ma al di fuori di questo stereotipo di donna “amazzone.”Alle sue amanti femminili Ira Perrot, Rafaela e Suzi Solidor l'artista dedicò la serie“visions amoureuses” dove è evidente un erotismo esplicito che si evidenzia nella cura per il dettaglio, e nell’attenzione per la posa e per gli abiti, come nel Portrait d’Ira P. del 1930, nel Portrait de la duchesse de la Salle del 1925. In Perspective del 1923 è esplicita la narrazione di un amore saffico di impronta cubista. Nella Parigi di quegli anni erano in voga locali per sole donne come il noto Le Monocle a Montmartre, fotografato da uno scatto di Albert Harlingue del 1930 (foto in catalogo). Vi sono rimandi simbolici all’amore in opere come Arums, ètude (Calle, studio) del 1938, nel quale la simbologia del fiore rinvia all’organo sessuale femminile e sottolinea la sua forte valenza erotica accentuata dal contrasto con la profondità del fondo scuro, un soggetto presente anche negli scatti fotografici di Tina Modotti e di Dora Maar. La Lempicka spesso ritrae in coppia le sue modelle, alludendo esplicitamente ad una complicità di sguardi come in L'ècharpe orange, 1927, Les deux amies, 1928, o Le vert jade (Le turban vert), 1929. La pittura della Lempicka svela e allo stesso tempo congela i sentimenti, nel suo stile rigoroso che esalta lo spessore della materia pittorica al punto da renderla plastica. Donne fatali, austere e algide, impeccabili nel trucco e nell’abbigliamento, sensuali nei panneggi svelano le forme in pose desunte dal linguaggio antico dell’arte. 

La tunique rose, 1927, La belle Rafaela e La belle Rafaela en vert, 1927, e Nu aux voiliers, 1931 sono sofisticate veneri moderne dalla pelle chiara, eroine fatali nelle quali la Lempicka ritrae un po’l' immagine di se stessa, come nei dipinti Le tèlèphone II del 1930, L’echarpe bleue del 1930.

Scritto da Antonella Colaninno

Tamara de Lempicka La regina del moderno.
Roma, Complesso del Vittoriano
11 marzo - 10 luglio 2011
a cura di Gioia Mori