Nudo di donna EGON SCHIELE















venerdì 13 marzo 2015

LA FOTOGRAFIA IN ITALIA NEGLI ANNI TRENTA.



di Antonella Colaninno

In un breve saggio sulla fotografia Francesca Alinovi rileva le linee principali del dibattito sui principi estetici della fotografia italiana negli anni ’30 del Novecento, sostenendo una continuità con le teorie di Moholy-Nagy e con gli scritti di Arnheim pubblicati in Italia in quegli anni, ma già noti in Germania e in Inghilterra. L’Italia, scrive la studiosa, vive un intenso dibattito culturale e una circolazione di idee su scala internazionale sostenuti dalla presenza, sul mercato editoriale, di numerose riviste e da tutta una serie di mostre patrocinate dal regime negli anni tra il 1927  e il 1936. Milano è sulla scena editoriale con le riviste “Il Progresso Fotografico” di Rodolfo Namias, e “Note fotografiche” di Alfredo Ornano, “Galleria” di Luigi Andreis e il “Corriere Fotografico” di Baravalle, Bologna e Bricarelli sono le riviste di settore torinesi. La “Rivista Fotografica Italiana” di E. Jacchia viene pubblicata a Vicenza, mentre “La Gazzetta della Fotografia” di Palermo non esclude in questo quadro territoriale, l’Italia meridionale-insulare dal resto dello Stivale, nonostante la sua posizione periferica. La riflessione in materia fotografica interessa principalmente, due aspetti: considerare la fotografia come un’esperienza puramente tecnica, o piuttosto, pensare che essa abbia esclusivamente, un valore di immagine. “Gli anni Trenta, insomma, sono gli anni in cui il modernismo, di derivazione Bauhaus e per quanto riguarda la fotografia discendente dalla linea Moholy-Nagy-Arnheim, si incrocia con una sensibilità postmoderna che, in termini più precisi, potrebbe essere identificata con la poetica del “realismo magico” e con  una certa foto artistica che si sviluppa in quegli anni. Nello stesso periodo, del resto, accanto all’attività dei fotografi “puri” (i fotografi dei circoli amatoriali) si svolge un  interessante lavoro da parte di fotografi-architetti, designers, grafici pubblicitari, pittori. Ed è soprattutto in questi casi che la pratica fotografica si sposa con una sensibilità artistica più vasta e generale”. “[…] la macchina vede più dell’occhio umano e, soprattutto, a differenza di quello, vede in maniera perfettamente oggettiva”, la foto è “immagine in sé” è “realtà autonoma e concreta”, questa l’idea espressa da Moholy-Nagy nell’ottavo volume della serie Bauhausbucher edito nel 1925 e 1927 che con la sua circolazione, ha permesso la divulgazione del pensiero degli studiosi anche in Italia. “La logica dell’umano cervello tradisce la realtà delle cose […]. L’obiettivo invece, ha una sua indiscussa superiorità: non sa, non pensa, ma vede solo nudamente quello che è” scrive Pellegrini sul numero 22 della rivista “Cinema” del 25 maggio 1937, un concetto sostenuto anche da altri autori-fotografi del tempo che ribadiscono il ruolo della foto anonima, non firmata, separata dalla personalità del suo autore. “Buona parte della foto sperimentale italiana degli anni Trenta […] risente di questa posizione tecnicista “pura” o modernista. La sperimentazione, in altre parole, […] viene concepita come analisi metodologica interna delle possibilità di funzionamento del mezzo stesso. […] Scopi diversissimi si propone la sperimentazione fotografica del secondo futurismo (Tato e per certi aspetti Castagneri), e anche quella diretta a fini pubblicitari, come nel caso di quello straordinario fotografo che è Antonio Boggeri, con cui si tocca una sensibilità postmoderna”. Tra i nomi dei principali fotografi della scena italiana nel trentennio, l’Alinovi ricorda quello di Alfredo Ornano, fotografo e scrittore sulla rivista “Cinema” nonché autore di importanti “trattati manualistici”; quello di Luigi Veronesi che fa uso del fotogramma come procedimento tecnico privilegiato perché “gli oggetti […] possiamo vederli al di là della loro forma reale in immagini che non ci appaiono eppure sono vere”. Il nome di Franco Grignani è menzionato tra quelli dei fotografi più vicini al “realismo magico” o “fotometafisica” che cerca di rilevare  quel senso magico che c’è negli aspetti quotidiani della nostra vita, nelle cose e negli esseri umani. Le sue composizioni sono l’espressione di una dimensione atipica dove il gioco si unisce alla poesia. Giuseppe Pagano è ricordato per la sua abilità di “[…] far coesistere perfezione tecnica e perfezione di immagine”. Lo stesso Pagano, in merito alla differenza tra arte e scena, afferma che “I greci non conoscevano questa distinzione di idee tra tecnica e arte: usavano lo stesso vocabolo per ambedue”. Oltre alla fotografia così definita “pura”, la fotografia italiana si afferma anche in ambito “documentaristico” con i reportage di luoghi esotici (Luciano Morpungo, Federico Patellani, Orio Vergani, Stefano Bricarelli). Per tutti questi fotografi, il segreto è “nell’istinto fotografico e nella rapidità, grazie alla quale si può raccogliere la bella fotografia e quella documentaria”. I fotografi di questi anni non disdegnano la foto artistica che si afferma all’interno del secondo futurismo, tra il 1930 e il 1932 e sono attenti alla forma e ai “significati concettuali nuovi indipendentemente dalla purezza tecnica” (Wulz, Boccardi, Guarnieri, Castagneri, Guglielmo Sansoni alias Tato, Demanins, Parisio, Farfa). Arturo Ghergo fa dei propri ritratti di donne affascinanti dell’alta società “l’oggetto del suo desiderio”, mentre Ghitta Carell nelle figure  austere e velatamente enigmatiche dei suoi scatti, “elabora splendidi ritratti congelati di inquiete eroine femminili”.


Infine, Giuseppe Cavalli  nelle sue nature morte proietta oggetti di uso quotidiano sullo sfondo luminoso di campiture indistinte dove trovano un posto remoto le flebili sagome di oggetti come elementi visivi di una percezione indefinita dello spazio e della materia.. “[…] si ha insomma negli anni Trenta 
una foto tutta spostata sui valori artistici, o sugli effetti di immagine o di risultato che, in disprezzo de

llatecnica, fa volutamente un uso antiquato di lastre, apparecchi, emulsioni, ritocchi e che, anziché 
applicarsi alla scoperta delle povere e umili cose, si fa vanto di andare alla ricerca di soggetti straordinari ed eccezionali (belle donne della nobiltà e dello spettacolo […]”. L’Alinovi conclude la sua analisi sulla fotografia degli anni Trenta ricordando le personalità fuori dal coro di Carlo Mollino e Mario Bellavista considerati come “i due teorici più spregiudicati di una nuova sensibilità fotografica, 
disancorata da ogni schiavitù”.



Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Giuseppe Pagano, Roma E 42; Arturo Ghergo, Mariella Caracciolo Agnelli; Giuseppe Cavalli, Master of light; foto di Giuseppe Cavalli; foto di Carlo Mollino. 

domenica 8 marzo 2015

TRA AZIONE E PERCEZIONE. LA PERFORMANCE COME CONOSCENZA

“Poesia infatti, come vuole la etimologia della parola, significa poièin, fare, e senza alcun limite o preclusione di sorta imposti […].  Il significato di poesia si dilata sconfinando dal ristretto ambito verbale e sottraendosi ai sensi privilegiati della vista e dell’udito, che hanno storicamente monopolizzato la produzione e la funzione artistica. La poesia può essere da ascoltare, da leggere, da vedere – e va benissimo – ma anche, e perché no?, “da masticare”, “da leccare”, “da ingerire”, “da toccare”, “da odorare”, eccetera”. Francesca Alinovi

di Antonella Colaninno

“[…] l’Eros, cui spetta l’impulso fondamentale alla vita e alla propagazione della specie, fenomeno carnale e materiale per eccellenza, è stato fatto vittima di una repressione secolare esercitata ai danni del corpo e a favore della mente, cosicchè è stato ben presto snaturato e deviato rispetto alla sua inclinazione originaria. Fin dalla antica civiltà greca, e basta pensare alle due figure antagoniste ed emblematiche di Apollo e Dioniso, l’Eros è stato scisso in due polarità antitetiche e nettamente contrapposte: l’una nobile e “spirituale”, l’Amor sacro, l’altra bassa e “sensuale” l’Amor profano. Questa dicotomia, ereditata dalla civiltà rinascimentale anche se addolcita e ammorbidita mediante la assunzione come modello di due floride e prosperose figure femminili ampiamente dotate di sex appeal (e valga come esempio il famoso quadro di Tiziano), è pervenuta si può dire fino a noi, arricchita e costellata da innumerevoli simboli e riferimenti di carattere sessuale.” (Francesca Alinovi). La performance, tra rappresentazione e comportamento, cerca di recuperare il rapporto con il sé e rivisita i modelli sociali delle civiltà arcaiche. Essa si pone nel suo ruolo sociale, come strumento di denuncia e di analisi, come veicolo di ideologia politica, e di rivendicazioni femministe, ma soprattutto come volontà di liberare la dimensione irrazionale per  trovare un equilibrio tra la sfera intellettuale e quelle pulsioni istintive che regolano la nostra sfera fisiologica. La performance, che fa uso del corpo e di tutte le sue potenzialità sensoriali, ricorre anche all’utilizzo di strumenti tecnologici per la registrazione e la conservazione dell’happening e per potenziare ed estendere lo sguardo, per natura limitato nella sua percezione visiva. L’azione performativa libera l’inconscio e lo rende oggettivo, giustificabile, in quanto diviene allo stesso tempo, anche altro da noi, allontana la nudità dall’idea di decoro sociale perché cancella la distanza contemplativa, e persino la violenza  trova la sua giustificazione come strumento di liberazione simbolica. Liberare il corpo significa anche annullare i limiti fisici e strutturali delle arti visive tradizionali, l’arte si fa spettacolo e porta l’estetica nel territorio dell’ iper–estesia dove la nostra sensibilità si dilata tra “telepatia, interpretazione dei sogni, parapsicologia, energia organica.” Performance significa superare la staticità di un lavoro pittorico o scultoreo per dare vita ad un’azione “che si fa oggetto – ambiente”.  La performance diventa uno strumento di conoscenza e di ricerca dei limiti delle “possibilità biologiche, fisiologiche e psicologiche” dell’attore come del pubblico che da spettatore diventa protagonista dell’azione, come nella ormai storica performance di Marina Abramovic e Ulay dal titolo Imponderabilia. 


“L’uno di fronte all’altra, completamente nudi e alla distanza di circa quaranta centimetri, si sono posti all' entrata principale della galleria, costringendo il pubblico che desiderava entrare a passare attraverso il piccolo spazio che li divideva” (Roberto Daolio). La percezione del proprio corpo attraverso l’estensione dei sensi trova in Gina Pane una delle sue massime espressioni. L'artista sperimenta i possibili linguaggi del corpo e, nell'esperienza conoscitiva del dolore,  acquisisce memoria di sè.



La performance spesso ricorre al Kitsch, all’ironico, per decostruire il valore del senso comune come nel caso di Luigi Ontani che “per mezzo del Kitsch rifonde vita ai luoghi più comuni  e stereotipati della nostra cultura […]” “[…] viene recuperato l’antico valore iniziatico e cultuale del tableaux vivant, quello cioè di – sacra rappresentazione- destinata a nutrire di sangue, carne e passione le gelide e asfittiche icone della pittura devozionale” (Francesca Alinovi). Con l’eclettico Luigi Ontani la performance attiva quel percorso di destrutturazione dell’identità che si ricompone nelle metamorfosi di possibili  somiglianze con i personaggi della storia e della cultura popolare, dalle divinità della mitologia, alle maschere di Pulcinella e Balanzone, passando dall’universalità dell’Olimpo alle tipologie caratteristiche del folklore locale con le maschere del Carnevale di Napoli e Bologna. La trasfigurazione dell’io ricorre anche alla teatrale rivisitazione dei Santi con la ben nota rappresentazione iconografica del San Sebastiano. 



C’è nella performance, la volontà di combattere quei tabù culturali che limitano l’esplosione emotiva “costretta nell’oppressione di ruoli, vincoli e convenzioni”. Attraverso il sesso si sciolgono i legami con quei valori precostituiti e l’oggetto simbolo diventa l’icona della pornografia “come liberazione delle cariche emotive e della fisicità […]”. I performers utilizzano il corpo e ogni sua capacità sensoriale, avvalendosi anche, di apporti sonori e strumentali che diventano  parola quando investono in significati, mentre restano semplice evocazione se non varcano la soglia della pura emanazione di suoni. La scelta del travestimento rientra nella logica e perché no, anche nel gioco di un comportamento attento a percepire le proprie pulsioni, sempre in bilico tra le due possibili vie per vivere la propria sessualità : “[…] il polo maschile e il polo femminile interagiscono e caratterizzano la disponibilità effettiva per un uso ambivalente del proprio corpo e del proprio essere”.

Pubblicato da Antonella Colaninno

Alcune date storiche delle performances:
1952* John Cage, Charles Olson, Robert Rauschenberg, Merce Cunningham, David Tudor-Indeterminate Event- al BlackMountain College, USA.
1955* Allen Ginsberg -Howl- Six Gallery, San Francisco.
1959* Piero Manzoni -Il fiato d’artista- Milano.
1960* Piero Manzoni-Divorare l’arte- Galleria Azimut, Milano / Yves Klein-Antropometrie del periodo blu-Institut d’Art Contemporain, Parigi.
1961* Piero Manzoni-Sculture viventi- Galleria La Tartaruga, Roma.

In foto: Imponderabilia di Marina Abramovic e Ulay; due immagini di Gina Pane; due Tableaux vivants di Luigi Ontani: San Sebastiano e Pulcinella.