Nudo di donna EGON SCHIELE















mercoledì 25 marzo 2020

BIENNALE DI VENEZIA 53. ESPOSIZIONE D'ARTE CONTEMPORANEA Fare Mondi/Making Wordls

Pubblico a distanza di 11 anni un mio testo, ormai datato, sulla Biennale d'arte di Venezia n.53, che fu pubblicato su un portale d'arte in data lunedì 23 novembre 2009. Buona lettura...

di Antonella Colaninno



Credo che qualsiasi contenitore artistico sia il risultato di un percorso soggettivo legato a precise scelte curatoriali le quali infine portano a decontestualizzare l'opera dalle motivazioni legate alla sua stessa genesi e ad unirla a nuovi contesti sulla base di scelte ragionate.
A conclusione di questa 53a Biennale d'arte contemporanea si cercano punti di riflessione e nascono perplessità sul ruolo dell'arte contemporanea all'interno dei circuiti espositivi e su come il suo fine di ricerca e di espressione creativa possa dialogare con le scelte curatoriali e con i percorsi dello stesso itinerario espositivo. Non c'è creazione che non esalti il valore dei contenuti, quel percorso mentale dal quale l'opera ha origine, il Fare Mondi/Making Worlds non può che esprimere l'elogio della creatività, il valore dell'immaginazione ma anche l'eterogeneità come valore accrescitivo dell'arte che fa della differenza lo spazio del dialogo, l'espressione di una "totaltà antropologica" proiettata verso l'indagine e la sperimentazione, come afferma Enrico Pedrini. Lo stesso direttore Daniel Birnbaum insiste sull'importanza della differenza all'interno di una società globalizzata e omologata. Veronica Caciolli sostiene invece l'importanza del rinnovamento di questa Biennale dove "le singole creatività cooperano nella stessa direzione."Il Fare Mondi è uno spazio abitato nel quale noi partecipiamo interagendo con l'opera d'arte. L'artista resta il primo fruitore di se stesso a cui si svela l'opera alla fine del processo creativo, perchè "l'opera d'arte incarna una visione del mondo", è un modo di fare il mondo. All'interno del dibattito su questa edizione della Biennale poco si è parlato della riapertura del Padiglione Venezia assente nell'esposizione dal 1972. Quest'anno è stata allestita la mostra dal titolo ...fa come natura face in foco curata da Ferruccio Franzoia e dedicata agli artisti contemporanei che lavorano il vetro. Un'arte antica la cui tradizione si lega a Venezia e ai suoi maestri vetrai. Il vetro è stato tra i materiali che ha rappresentato il corso della nuova architettura sul finire del XIX secolo e del moderno design nelle arti applicate in ambito Art Nouveau. Nove gli artisti presenti in rappresentanza del panorama vetraio internazionale tra cui Cristiano Bianchini, Alessandro e Laura Diaz De Santillana, Yoichi Ohira, Ritsue Mishima, Maria Grazia Rosin, e Lino Tagliapietra. Nel giardino esterno al padiglione è stata collocata la straordinaria interpretazione del vetro dell'artista Dale Chihuly, mentre all'interno è stata allestita una sezione in omaggio al passato con trenta pezzi storici in vetro soffiato dei primi anni '20 del Novecento, realizzati da Vittorio Zecchin e disegnati per la Cappellin Venini & C. ai quali si uniscono pezzi di Venini firmati Carlo Scarpa datati alla fine degli anni '30. Molte a mio avviso le proposte interessanti di questa edizione tra le quali la partecipazione degli Stati Uniti con la produzione provocatoria di Bruce Nauman(Fort Wayne, Indiana, Usa, 1941)con la sua contaminazione tra i materiali e le fantastiche suggestioni di una immagine che si reinventa ribaltando i tradizionali codici visivi. La mostra vuole sottolineare il percorso che l'artista ha svolto in quasi quarant'anni di attività e si snoda in tre sedi espositive: i Giardini della Biennale, gli spazi di Ca'Foscari, e la sede dei Tolentini della università Iuav di Venezia, a testimonianza del cambiamento funzionale di questi spazi privati a luoghi pubblici. Simone Berti(Adria, 1966) è una delle presenze italiane più interessanti di questa edizione. Presenta un serie di disegni tutti senza titolo realizzati tra il 2008 e il 2009, poetiche macchine surrealiste, prodotti di ingegneria avveniristica tra metafisica e architettura. Pietro Roccasalva è nato a Modica ma vive e lavora a Milano. Lavora sulla sovrapposizione creando così distorsioni della immagine che determinano un movimento apparente, il nonsense di una esistenza "costretta in un movimento senza senso."Michelangelo Pistoletto(Biella, 1933)espone una serie di specchi il cui vetro rotto lascia intravedere uno sfondo oscuro esaltato dalla cromia delle cornici in oro. La poetica dello specchio è cara all'artista: i suoi primi quadri specchianti risalgono al 1961. Lo specchio è ciò che riflette il mutamento, che riproduce la realtà catturando la linea del tempo, è contenitore della totalità fisica, spirituale e intellettuale. Lo specchio rotto allude al passato mentre l'oscurità è l'altra faccia della luce, il buio che oscura l'esistenza. 

I giardini surreali dell'artista svedese Nathalie Djurberg (1978)coinvolgono lo spettatore all'interno di uno spazio fisico e virtuale in cui si svolgono proiezioni che comprendono elementi di disegno e pittura uniti alla plastilina e a scenari in styrofoam. Con chiare allusioni erotiche esse esprimono il mondo vasto e incomprensibile delle emozioni tra ingenuità e inquietudine.

Le ombre danzanti di Hans Peter Feldmann(Dusseldorf, 1941)sono la proizione del movimento di piccole giostre kitsch su uno schermo bianco su cui creano delicate ombre cinesi danzanti. L'installazione di Oyvind Fahlstrom(1928, San Paolo, Brasile  1976, Stoccolma, Svezia)Dr Schweitzer's Last Mission, già esposta alla Biennale dei Paesi Nordici nel 1966, è un collage di cartoni e fumetti che nasconde un codice simbolico di polemica sociale sospeso tra poesia e immaginazione.

Toba Khedoori, artista austrialana nata a Sydney nel 1964, presenta una serie di disegni in cui la visione realistica di oggetti comuni viene decontestualizzata dalla propria ambientazione e collocata su ampie distese di cera bianca monocroma o ad encausto nero. La percezione della nuova visione assume una natura differente, uno stato di metafisica sospensione dell'anima in cui gli oggetti si aprono alla spazialità.



Lygia Pape(Nova, Friburgo, Brasile 1927 - Rio de Janeiro, Brasile, 2004)espone una suggestiva coreografia di fasci di luce intitolata Ttèia all'interno di uno spazio delimitato da quattro colonne, elementi caratterizzanti degli spazi dell'Arsenale. Si tratta di sottili fili illuminati di rame e oro tesi tra pavimento, soffitto e parete che impegnano l'artista in una ricerca sulla tridimensionalità dove lo spazio buio crea l'illusione dell'immaterialità. Tomas Saraceno(Tucuman, Argentina 1973)vive e lavora a Francoforte. La sua installazione Galaxies Forming along Filaments, like Droplets along the Strands of a Spider's Web esprime un nuovo modo di concepire la progettualità architettonica tra utopia, cretività, e visione intellettualistica, ispirata al mondo animale(ragno)e all'astronomia.

La ragnatela rappresenta la struttura preistorica dell'universo. Le corde elastiche fissate al pavimento, al soffitto e alle pareti mantengono in tensione la struttura creando una ambientazione fantasiosa e surreale. Richard Wentworth(Samoa, 1947)infine, è presente con una installazione di libri sospesi ad una struttura metallica le cui geometrie ricordano le linee di Mondrian, mentre l'installazione in vetro e legno dal titolo Thus evoca la magia del Surrealismo metafisico di Magritte.


Pubblicato da Antonella Colaninno

LO SPAZIALISMO DI LICATA E MORANDIS

di Antonella Colaninno

Lo Spazialismo è un movimento artistico formatosi intorno alla ricerca di Lucio Fontana tra il 1947 e gli inizi del 1948 a Milano di cui il Manifesto Blanco, redatto da Fontana e da un gruppo di artisti argentini a Buenos Aires nel 1946, rappresenta una importante premessa. Nella sua astrazione lo Spazialismo ha una forte ascendenza esistenziale espressa in un linguaggio nuovo che interrompe le tradizioni figurative convenzionali e la dimensione di spazio inteso come materia per raccontarsi in una nuova ricerca che pone in osmosi gli spazi dell'esistenza con una rinnovata interpretazione della tela e dell'ambiente. Lo spazio diventa ora una unità narrante di luce e colore che esprime la creatività di un linguaggio simbolico che non vuole più rappresentare ma emozionare. Già la nascita delle Avanguardie aveva creato una rottura verso i canoni tradizionali di rappresentazione e verso un'estetica come culto delle velleità aprendo la strada alla libera interpretazione degli spazi trasformati in supporto per le emozioni. Se Lucio Fontana e Piero Manzoni rappresentano le radici dello Spazialismo in area lombarda, con Riccardo Licata e Gino Morandis ci troviamo in ambito veneto dove lo spazialismo si connota per l'avversione al colore naturalistico e per l'indissolubile unione di colore, spazio e materia.

Per Riccardo Licata, nato a Torino (1929) e di adozione veneziana, un costante riferimento sarà l'artista Bruno Saetti,  cui si ispirerà per l'uso di colori caldi e per la geometria delle forme, e l'ambiente lagunare dove si è formato e da cui ha desunto il valore del colore e della luce, Venezia è la città dove lo spazio e la luce sono infiniti, cielo e mare dilatano lo spazio che si apre alla luce per poi chiudersi nelle oscure e umide calli interne. Riccardo Licata non ha lasciato alcuna testimonianza di adesione al gruppo ma vi aderisce pienamente per la libertà del segno nello spazio. Negli anni '50 la sua ricerca pittorica si muove su una grande libertà compositiva in un linguaggio puramente emozionale di disarmante trasparenza dove il colore è indeciso, ancora trattenuto dalla tensione della rappresentazione figurata mentre il segno segue un andamento musicale segnato da variazioni di luce.

La geometrizzazione delle forme giunge negli anni '60 quando l'espressione si fa razionale ed enigmatica, il colore diventa espressionista, morbido e la resa emozionale si affida al valore cromatico e alla forma di pseudo geometrie.

Il colore acquista un ruolo fondamentale, la pittura diventa informale e particolarmente poetica mentre il segno si esprime volutamente in astrazioni perchè non vuole narrare ma comunicare per simboli una tensione. Il colore si stempera a volte in lumeggiature, in tonalità chiare come negli azzurri dell'opera Il giudice (1960), una tempera su carta pressata, in altri casi è materico, persino ombroso, nordico, come nell'opera Immagine, una tecnica mista su carta rintelata del 1960. Al colore libero ed emozionale di una prima fase si sostituisce ora un colore razionale che si chiude in simboliche geometrie di totem astratti e l'emozione lascia posto a un codice cifrato di ispirazione surrealista.

Lo spazio si organizza, il colore si diluisce e l'emozione si fa analitica non più resa per immediatezza, a questo periodo appartengono opere quali Composizione (1961), il Grande esterno (1961) e Ricordo la notte (1962).

Negli anni '70 il colore si fa più forte, espressionista, mentre al suo interno il segno grafico si avvale di crittogrammi che occupano uno spazio organizzato per ripartiture geometriche in sequenza ritmica.

Gino Morandis è nato a Venezia (1915), a Bologna segue le lezioni di Giorgio Morandi da cui apprende l'attenzione al valore emozionale del colore e al lirismo, espresso in una cromia tenue e sfumata e in una forma languida dal contorno tremulo.

Anche per Morandis Venezia ha ispirato lo studio della luce e le sue atmosfere misteriose tra cieli tersi e foschie, del resto l'artista veneziano ha sempre sottolineato l'importanza della tecnica nell'ambito della rappresentazione pittorica:"osservando i dipinti sia dell'antichità che della modernità esiste sempre una grande disciplina nella ricerca dei valori pittorici, sia quando si vuole realizzare con metodi tradizionali, sia quando i metodi della libertà espressiva riescono a concentrarsi in forme [...]""[...]la tecnica contribuisce a determinare la qualità dell'opera d'arte.

"Per Morandis la tecnica è disciplina nell'equilibrio tonale e compositivo che desume dalla ricercatezza pittorica e dalla preziosità di Giorgio Morandi, mentre il colore rappresenta la libertà da ogni costrizione formale e mentale. La massima espressione di questa equazione fra luce, spazio, colore è resa in opere come Bozzetto per concorso, un pastello su carta degli anni '50, e Concentrico del 1963 in cui il colore rappresenta una dilatazione dello spazio e i segni grafici sono essi stessi spazio all'interno della composizione.


Se la luce in Licata corrisponde alla espressione della sfera emotiva, quella di Morandis è una luce cosmica che corrisponde a spazi infiniti.
Pubblicato da Antonella Colaninno

venerdì 14 febbraio 2020

ARTE FIERA 44


INAUGURATA A BOLOGNA LA 44A EDIZIONE DI ARTE FIERA


di Antonella Colaninno

"Le specificità di Arte Fiera sono di essere una grande vetrina per l'arte italiana del XX e XXI secolo, con un solido baricentro nei Post-War-Master, il forte richiamo commerciale, un pubblico più vasto e composito di quello che segue le vicende dell'arte degli ultimi anni. Il taglio stesso delle altre grandi fiere italiane crea la possibilità, anzi, la necessità di una fiera con queste caratteristiche."A raccontarlo è Simone Menegoi per il secondo anno alla guida della fiera bolognese, la più antica in Europa, nata nel 1974 dopo Art Cologne (1967) e Art Basel (1970). Con un anticipo di una settimana rispetto alla edizione del 2019, si è inaugurata al pubblico il 24 gennaio, la Fiera di Bologna ha previsto l'accesso dal lato Nord presentando una novità per l'ingresso, solitamente previsto in piazza Costituzione, di fronte al Padiglione dell'Esprit Nouveau. L'edizione del 2020 ha coinvolto 345 artisti e 155 gallerie italiane, per la maggiore, e straniere, divise in quattro sezioni. La Main Section, (108 gallerie) con stand monografici o con un massimo di sei artisti; Pittura XXI (19 gallerie), curata da Davide Ferri e dedicata interamente alla pittura contemporanea e alle nuove tendenze degli artisti emergenti, una scelta che sfida la crisi del mercato e le scelte dei collezionisti sempre più orientati all'acquisto di opere su carta; Focus (8 gallerie), a cura di Laura Cherubini, che ha focalizzato le sue scelte sulla pittura italiana nel decennio tra gli anni '50 e '60 del Novecento con la presenza di artisti come Lucio Fontana, Piero Dorazio, Franco Angeli; e Fotografia e Immagini in Movimento (20 gallerie), curata dalla piattaforma Fantom e alla sua seconda presenza in Fiera, attenta a porre in relazione il video e la fotografia con gli altri linguaggi dell'arte contemporanea. In occasione di Arte Fiera, Bologna ha proposto il consueto appuntamento di Art City, il programma di mostre ed eventi, con installazioni e performance, che hanno coinvolto gli spazi istituzionali e privati della città.

Tra gli eventi in corso, AGAINandAGAINandAGAINand al museo MAMbo, la mostra collettiva di artisti contemporanei allestita nella Sala delle Ciminiere che, spaziando dal video alla performance e ai  diversi media artistici,"indaga il tema della ripetizione"e dell'impatto della tecnologia sulla società."



Villa delle Rose, ristrutturata da alcuni anni come sede espositiva esterna del MAMbo, propone la prima mostra personale dello spagnolo Antoni Muntadas che ripercorre alcune fasi della sua ricerca artistica dagli anni '70 ad oggi, e la sua critica alla società dei consumi e alla televisione. Muntadas riflette sulla relazione tra uomo e ambiente riscoprendo il valore anarchico del gesto, talvolta isolandolo nell'estensione di un ingrandimento attraverso una lente, o soffermandosi sulla percezione e sulla emozione.


Il Padiglione dell'Esprit Nouveau presenta al pubblico, negli spazi che ricostruiscono fedelmente l'edificio progettato da Le Corbusier e Pierre Jeanneret a Parigi nel 1925 per l'Esposizione Internazionale, il lavoro dell'artista finlandese Mika Taanila."Con videoinstallazioni, film, collage e opere fotografiche l'artista indaga i modi in cui i dispositivi tecnologici hanno ridefinito il mediascape e le modalità della visione."A Palazzo De'Toschi in piazza Minghetti, 13 artisti espongono in una mostra di dipinti per riflettere sulle forme della pittura, dalla citazione classica alle avanguardie, dal quadro di genere all'astrazione. Infine, lo Studio privato di Concetto Pozzati ha aperto per la prima volta i suoi spazi di via Zamboni, offrendo al pubblico il proprio"guardaroba di affetti"nella performance teatrale Io sono un pittore, in cui l'attore dichiara di essere l'artista mentre  accompagna i visitatori tra dipinti, libri e ricordi, "in una galleria di opere e fotografie".

Pubblicato da Antonella Colaninno

IN FOTO: Mika Taanila, Apostolos Georgiou, Muntadas, Mika Taanila

giovedì 16 gennaio 2020

“LE TRE FINESTRE” DEL PADIGLIONE VENEZUELA



INAUGURATO IL 19 MAGGIO, IL PADIGLIONE VENEZUELA RACCONTA IL
DRAMMA CIVILE E LA BATTAGLIA PER I DIRITTI UMANI
di Antonella Colaninno


In Venezuela c'è oppressione, denuncia l'Alto commissario ONU per i diritti umani Michelle Bachelet. L'ex presidente cilena lo ha affermato a Ginevra nel suo rapporto sulla situazione nel paese sudamericano, dove oppositori e difensori dei diritti umani “sono stati oggetto di minacce, detenzioni arbitrarie, tortura, violenze sessuali, uccisioni e sparizioni.” Il viceministro venezuelano per la Comunicazione internazionale, William Castillo, ha risposto affermando l'inesattezza di tali affermazioni che non fanno "alcuna menzione ai progressi del paese in materia di diritti umani”, e ignorano le ripercussioni “che l'embargo economico illegale, criminale e immorale sta esercitando sul nostro popolo". Il Padiglione Venezuela è, senza ombra di dubbio, il caso emblematico non solo di questa Biennale, ma di quanto accade nel mondo e pone un punto di riflessione sul titolo della mostra “May You Live In Interesting Times.” Il padiglione, progettato dall'architetto Carlo Scarpa all'interno  dei Giardini, e rimasto chiuso nei giorni della vernice stampa, è stato inaugurato il 19 maggio, a causa del difficile contesto politico del Paese e del suo dramma civile, alla presenza del Ministro della Cultura Ernesto Villegasdel Viceministro, anche curatore del Padiglione, Oscar Sotillo Meneses e di tre dei quattro artisti invitati: Natalie Rocha, Ricardo García e Gabriel López (mentre Nelson Rangel non ha potuto essere presente). Gabriel Lopez è stato il protagonista di una coinvolgente performance durante l'inaugurazione, mostrandosi al pubblico in un travestimento da tigre gladiatore, calcando la scena da vero protagonista, tra dipinti, video e installazioni.


Metáfora de las tres ventanas Venezuela: identidad en tiempo y espacio è il titolo scelto per il padiglione Venezuela alla 58a Biennale d'arte di Venezia“Abbiamo scelto di mostrare, attraverso tre finestre metaforiche, una lunga costruzione di storia collettiva e un aneddoto di ampio respiro pieni di poesie, canti, sfide e ribellione. La metafora della finestra è una soglia che fa comunicare gli spazi, consente uno scambio di luce, aria, sguardi. Il Venezuela esalta la propria identità libertaria, sviluppatasi nei secoli, e la condivide con un chiaro gesto che invita alla complicità gli sguardi altrui. Le finestre sono l’elemento seducente che stimola la curiosità e il bisogno di sapere. Confessiamo anche un desiderio nascosto di vedere noi stessi come un popolo nei lunghi sentieri della storia.”Un'invocazione di speranza per una nazione dove l'embargo economico imposto dagli Stati Uniti per far cadere il Presidente Maduro non ha raggiunto i suoi risultati. Il Venezuela è stremato dalle difficoltà economiche e la dittatura di Maduro, combattuta dalla popolazione in nome dei propri diritti e della libertà, è affiancata da Juan Gualdo e Leopoldo Lopez. Questo scenario politico lascia ben comprendere i motivi del ritardo dell'inaugurazione del Padiglione che infine ha portato in laguna, se pur oltre i tempi previsti, un'arte “vitale e pulsante” focalizzata sull'attualità della crisi nazionale affrontata attraverso la metafora delle tre finestre, dell’identità nel tempo e nello spazio. Un padiglione interessante e coinvolgente che sarà ricordato nella storia della Biennale a testimonianza anche della complessità delle relazioni internazionali e della crisi dello stato di diritto.


Pubblicato da Antonella Colaninno



lunedì 3 giugno 2019

IL DADAISMO POP DI MIKA ROTTENBERG AL MAMBO DI BOLOGNA IRONIA E SEDUZIONE DELL'ARTISTA ARGENTINA





di Antonella Colaninno


Il discorso visuale e le ambientazioni di Mika Rottenberg costruiscono uno spazio complesso dietro l'apparente semplicità delle forme. Il suo lavoro, in mostra al MAMbo di Bologna, si presenta come un'operazione allegorica attraverso un insieme di oggetti che inducono lo spettatore a relazionarsi con la banalità che lo circonda. Le installazioni e le immagini in movimento, creati per interagire con il pubblico come ambienti sensibili, sono gli elementi virtuali di una narrazione dell'attesa. Lo spazio environment rappresenta l'impalcatura portante di stanze comunicanti mediante porte e registri divisori; qui la figura femminile ha una sua centralità totalizzante, sottolineata da forme seducenti e da elementi concettuali come unghie e labbra. La donna si veste di una fisicità boteriana straripante di carne e procace sensualità, in un gioco di allegorie dove gli stereotipi convenzionali subiscono una mutazione. Nell'eccesso di volumi e nell'anarchia di atteggiamenti non convenzionali è sottesa l'idea di libertà: il dito con l'unghia dipinta di nero e i capelli raccolti in una coda di cavallo che ruota all'interno della fessura a parete attestano una femminilità consapevole dei suoi codici di seduzione che cerca di riappropriarsi di un ruolo, giocando sul nonsense di movimenti in apparenza insignificanti, che “possono anche significare il pericolo di una sensibilità” sollecitata “da una forza meccanica, rigida e tecnica, impersonale e fredda come quella del maschio e della società industriale.” Tali installazioni ambientali, come le labbra antro di Smoky lips (da cui è possibile spiare), una bocca in silicone che produce uno strano fumo, elaborano una nuova coscienza e capovolgono la prospettiva del corpo femminile da oggetto di ammirazione a soggetto e “corpo attivo.” “Sono corpi che funzionano come una macchina e macchine che hanno funzioni umane”, scrive Germano Celant, deliranti e paranoiche, che si disperdono nell'ambiente, che alludono alla potenza e alla fragilità del femminile. Sono macchine sceniche che si ispirano alle macchine dadaiste di Duchamp dove l'inconscio, il voyeurismo e il ribaltamento logico dei significati e degli aspetti linguistici costituiscono la giusta chiave di lettura. Chiari riferimenti sessuali sono evidenti nei nasi che si ingrossano, nelle unghie lunghe laccate di rosso, nelle labbra/antro carnose socchiuse, nei capelli raccolti a coda di cavallo. 

I personaggi di Mika Rottenberg hanno un naso abnorme che cresce annusando fiori e pietanze culinarie e si arrossa quando starnutisce, generando, come in un parto, oggetti e simpatici conigli che sembrano usciti dalla tuba di un prestigiatore. Lo starnuto espelle “oggetti e animali come una lampadina, una bistecca e un coniglio”, rivelandosi quale manifestazione della creatività interiore e maschile.” 

L'inconscio maschile è coinvolto in questa sovversione logica di associazioni e di simboli, mentre l'identità femminile si scioglie in frammenti per ricomporsi in eccessi nel continuo rimando allo sguardo e alla seduzione. Il suo mondo grottesco nasconde una visione critica dell'attuale società di massa e una riflessione sui paradossali lavori di montaggio che regolano le grandi catene di produzione come accade nella lunga e complessa lavorazione delle perle prima di diventare preziosi coralli per seducenti monili. Il capitalismo globale si riassume negli incastri architettonici, nei simboli femminili, nella sessualità esplicita, nell'allegoria dei bizzarri parti nasali. Il nostro corpo diventa un ingranaggio di induzione incapace di gestire e comprendere le sue azioni, spesso inutili, come quella di odorare i fiori e starnutire per produrre oggetti di consumo. 

FOTO: allestimento mostra, ufficio stampa Museo MAMbo
Pubblicato da Antonella Colaninno



martedì 28 agosto 2018

LA FOTOGRAFIA ILLUSIONE O RIVELAZIONE? FRANCESCA ALINOVI - LA FOTOGRAFIA: L'ILLUSIONE DELLA REALTA'



"La fotografia, negli anni '70, ha conosciuto un vero processo di esplosione in tutte le direzioni. Come per le donne, gli omosessuali e le minoranze etniche e razziali, si è verificato anche per la fotografia una specie di movimento di liberazione che l'ha affrancata dalla precedente condizione di soggezione nei confronti della pittura." Francesca Alinovi

di Antonella Colaninno

Francesca Alinovi estese le sue riflessioni anche in ambito fotografico. La fotografia. Illusione o rivelazione?, scritto insieme a Claudio Marra, è il titolo del saggio pubblicato nel 1981 dalla casa editrice Il Mulino di Bologna che ripercorre le fasi evolutive della storia della fotografia. La fotografia è un'arte che si traduce come illusione della realtà, nel suo essere "uno strumento preciso e infallibile come una scienza, e insieme inesatto e falso come l'arte." Alinovi riprende il pensiero del critico letterario francese Roland Barthes il quale afferma che la fotografia "o la si pensa come una pura trascrizione meccanica, esatta, del reale, come tutta la fotografia di reportage ed in certi casi quella di famiglia [...] o la si pensa come un sostituto della pittura ed è ciò che chiamiamo fotografia d'arte." Partendo proprio da queste riflessioni del Barthes, Alinovi scrive che la fotografia non può essere considerata arte come la pittura poichè manca della sua stessa libertà, non può lavorare su una tela o su un foglio bianco e deve fare i conti con il reale. "[...] se da un lato la realtà fotografica è comunque un'illusione (l'immagine fotografica è sempre un'altra cosa rispetto all'oggetto fotografato), dall'altro si può dire che ogni illusione premeditata ad arte dal fotografo riceve, dalla fotografia, un attestato di verità. Di fronte all'immagine fotografica più improbabile e inattendibile noi ci ritroviamo come nella condizione del "sogno o son desto" tipico del dormiveglia notturno, o dell'evento stupefacente e miracoloso: lo accettiamo come frutto di una realtà superiore." La studiosa porta in esempio i ritratti fotografici ottocenteschi di Diderì, che non ricercavano certo la rassomiglianza quanto, piuttosto, l'imprrevedibilità della stessa. "la fotografia, nata come strumento ideale per l'accertamento dell'identità, diventa subito occasione di fuga non solo dalla propria identità, ma dalla stessa realtà." "La foto nata come scienza, favorisce così il proliferare dell'illusione." E l'illusione è l'estensione della immaginazione il cui campo privilegiato è il fotomontaggio, usato dai primi fotografi per sistemare alcune imperfezioni di tipo tecnico. Nel 1813, sarà lo svedese Oscar Gustav Rejlander a brevettare l'invenzione del fotomontaggio. Rejlander lavorò con particolare attenzione sulla tecnica compositiva per dimostrare che la fotografia non è cosa semplice e, come la pittura, può elaborare temi complessi e allontanarsi dal realismo-naturalismo. La composizione fotografica dimostra così di non essere solo un fatto puramente meccanico, ma un lavoro che richiede inventiva e che usa "gli stessi procedimenti mentali, lo stesso trattamento artistico e l'accurata elaborazione richiesti da un quadro dipinto." 

La fotografia può essere il frutto di una costruzione scenografica studiata e realizzata con cura dei particolari che sfrutta l'uso di trucchi adeguati, come la creazione di sfondi architettonici e del blow up, attraverso i quali "Rejlander ingrandisce i dettagli prescelti fino a far loro assumere le dimensioni volute. A questo punto, non gli resta che inserirli tra le figure mediante il fotomontaggio." [...] nelle opere di questi fotografi, come nei loro scritti", scrive Alinovi, "si rintracciano di volta in volta riferimenti a Ruskin, ma anche a Sir Joshua Reynolds, il leggendario fondatore della Accademia Reale di Inghilterra, oppure a Burke, il celeberrimo teorico del Sublime, padre del pensiero romantico inglee, o a Cozens, il teorico del Pittoresco e padre del paesaggio atmosferico all'inglese." Il suo lavoro fotografico più famoso, - Il momento del trapassao - fu considerato offensivo per la morale comune dell'epoca, perchè "anche la morte, come la nudità, era ammissibile solo quando veniva rappresentata in modi virtuali e illusionistici dell'arte (pittura o scultura), non con le rudi maniere realistiche della fotografia. Anche la morte diventava pornografia, esattamente come un corpo nudo, quando veniva privato dei veli trasfiguranti della censura artistica." Ancora una volta "la foto veniva scambiata dall'opinione pubblica con la realtà [...]" e "se Rejlander era stato licenzioso nell'esibire troppo crudamente Eros, Robinson lo diventerà per aver ostentato con troppa spregiudicatezza Thanatos." Alinovi si sofferma su alcune delle tipologie ricorrenti nella fotografia in età vittoriana come la fotografia d'evasione, associabile al gusto per l'esotismo, così di moda in questi anni. In questo filone, la nostra autrice ricorda gli scatti dello scrittore e matematico Lewis Carroll (1832), per il quale la fotografia sarà "uno stimolo inesauribile all'invenzione di prodigi e di meraviglie." Carroll attribuiva alla macchina fotografica una sorta di "peccaminosità intrinseca" che, attraverso l'obiettivo, si caricava di uno sguardo seducente e perverso che il fotografo proiettava sul soggetto fotografato. Per questo, le sue bambine, "anche quelle vestite, presentano sempre un'aura maliziosa, di precoce maturità di donne adulte, dallo sguardo spesso torbido e ambiguo." 


"Davanti all'obiettivo di Carroll esse lasciavano trasparire un mondo occulto, segreto, forse proprio non del tutto innocente, normalmente ignorato e rimosso dal mondo adulto." Se Carroll fa della meraviglia la linea guida delle sue immagini fotografiche, Julia Margaret Cameron (1815) attinge alla poetica del sublime per dare voce alla sua fuga dalla realtà. Vicina dunque alla visione dei Preraffaeliti, la Cameron utilizza la sfuocatura come caratteristica principale delle sue immagini, per creare una dimensione spirituale molto simile al sogno.

Ognuno, a proprio modo, seguendo la propria poetica questi fotografi anticipano, attraverso l'illusionismo (Rejander e Robinson) e la foto d'evasione (Carroll e Cameron) quell'importante filone che andrà sotto il nome di esotismo fotografico. L'esotismo è "il desiderio di uscire fuori dal mondo conosciuto", "fuori" dalla esperienza ordinaria, si potrebbe anche dire, "fuori" dal sè. Con grande spirito d'avventura questi fotografi viaggiatori esplorano terre lontane e immaginano l'Oriente come un "grande sogno collettivo destinato a prender corpo nelle immagini fotografiche." Siamo negli  anni dell'espansione colonialista dell'Occidente verso il Terzo Mondo, essi ricercano il sogno in quei luoghi intorno ai quali si è creato il mito della storia e della nascita della civiltà. L'esotismo "è una componente della cultura ottocentesca, l'atra faccia, immaginifica e favolosa, dello scientismo positivista. Non a caso, prima dei fotografi, sono alcuni avventurosi pittori ed incisori ad imbarcarsi alla volta di quelle mitiche terre", come il pittore Eugene Delacroix. Tra questi fotografi la studiosa ricorda l'inglese Francis Frith (1822), con le sue foto artistiche dell'antico Egitto; l'archeologo inglese John Green, con le sue "tavole di paesaggi e scene archeologiche riprese sulle rive del Nilo" e l'archeologo e fotografo francese Auguste Salzmann (1824) con il suo reportage in Terra Santa. Pittori e fotografi erano sollecitati dalla East India Company a fare rilevamenti topografici sul territorio indiano per incentivare il commercio e controllare le vie di comunicazione. Sorsero infatti sul territorio stabilimenti fotografici commerciali, come la Bourne & Shepard, fondata nel 1862. Sulla scia dello spirito avventuroso di questo esotismo di genere si delineò il genere erotico, portato in fotografia dal barone austriaco von Stillfried (1839). Tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento alcuni fotografi, come Adolph de Meyer (1868) e Cecil Beaton (1904), lavorarono sulla citazione, spinti da un comune sentimento di nostalgia e di revivalismo. "La rivolta anti moderna di questi fotografi è dettata innanzi tutto dal tentativo di superare le più odiose impasses del modernismo stesso", così come, in tempi più recenti,  "la fotografia, in quanto strumento moderno per eccellenza, [...] diventa ideale espressione della sensibilità post moderna." Il barone Wilhelm von Gloeden (1856), considerato dalla studiosa tra le personalità artistiche più interessanti, sviluppò in fotografia  quel gusto intermedio di "foto illusionistica, d'evasione, esotica e, ora, post moderna", un "nobile decaduto, nostalgico, elegante", "eccentrico dandy amante di un bello votato fatalmente alla massificazione." Fotografo eclettico, von Gloeden è ricordato per i suoi "efebi travestiti, fauni, satiri, contadinelle, attuali nell'ermetismo della loro androginia, nella flessibilità del loro trasformismo, nella dissociazione schizoide della loro identità. [...] dominati da una sessualità  espansa e polimorfa" che "anticipa curiosamente comportamenti di massa di oggi." 

Il barone Adolph de Meyer è considerato da Alinovi  "il più legittimo erede dell'estetica raffinata e nostalgica del barone von Gloeden." "De Meyer, anzichè specializzarsi in bambine come Carroll, in vecchioni dalla lunga barba bianca come la Cameron, o in giovani efebi come von Gloeden, preferì buttarsi sulle più celebri bellezze dell'epoca, attrici di successo e nobildonne, mannequins e avventurose, iniziando ovviamente dalla prima bellezza che si trovava ad avere tra le mani: la moglie Olga." Ma de Meyer sarà ricordato soprattutto per le sue nature morte pubblicate su Camera Work e rese celebri per essere studi di luce realizzati usando la sfuocatura come espediente tecnico.


Cecil Beaton è considerato, invece, fotografo d'avanguardia, incline piuttosto alla nostalgia che all'avveniristico futuro, colui che riesce a formulare nell'evocazione del passato "soluzioni nuove per il presente", rendendo attuali stili e forme d'epoca. "Il mondo di Beaton è veramente il mondo abnorme e dilaatato dell'infanzia: è forse questo il vero mondo di Alice", un mondo che attinge dal teatro proprio in "quella ibrida mescolanza di realtà e artificio." Alinovi conclude ricordando il lavoro del surrealista britannico Angus Mc Bean (1904) e quello sullo spiritismo di Clarence John Laughlin (1905), con il suo gusto "squisitamente narrativo" per la fotografia. Ad epilogo del suo saggio sulla fotografia, Francesca Alinovi dedica l'ultimo capitolo a quell'aspetto della fotografia che definisce la "realtà dell'illusione", perchè "nata come trascrizione del reale." Molto significativo in merito è il libro di Duane Michals (1932) dal titolo Real Dreams, editato nel 1976. "Reali, nella fotografia, sono piuttosto i sogni, a cui la foto da forma visibile." Alcune foto di Michals "trattano l'inquietudine strana legata alla vita segreta degli oggetti."


"Trovare un guanto è trovare il frammento di una identità dispersa, la sua spoglia insepolta. Un uomo infila un guanto, e quell'atto è analogo alla penetrazione fallica in un corpo, a una lunga avventura erotica." La concettualità della fotografia si estende a una vera e propria architettura di scena con il lavoro di Urs Luthi e Luigi Ontani che progettano e organizzano "la regia nei minimi dettagli diventando per di più il soggetto fotografato." Ciò che attrae lo svizzero Urs Luthi "è la possibilità di amplificare e moltiplicare, per mezzo della fotografia, la propria identità", anche se il reale interesse del fotografo sarà indirizzato a quegli aspetti, così attuali in quegli anni, del trasformismo e della doppiezza sessuale.


Attraverso il gioco del travestimento e dell'ambiguità, Luthi esprime il ruolo ambivaalente della fotografia, quello di stare nel mezzo tra la realtà e l'illusione. "Il gigolò Luthi non è mai spensieratamente gay, ma un individuo ambiguo e misterioso, apertamente perverso. E poi è sempre pronto a sfuggire a ogni tentativo di definizione, a sgusciare dalle mani con la sua identità fluida." "La malattia e la perversione sessuale, tuttavia, che ha fatto la fortuna dell'artista, non tarda a riapparire sebbene sotto rinnovate spoglie." "Mentre Luthi comincia a imbellettarsi e a travestirsi con abiti attillati femminili, Lou Reed si appresta a incidere, nel 1972, Transformer, e David Bowie si presenta in scena con gli occhi bistrati e in tute di lamè." In parallelo alle ricerche sull'identità, sempre in bilico di Luthi, Luigi Ontani, tra profano e kitsch, vagheggia l'affermazione di una propria mitologia personale.

Alle ultime battute del suo saggio, Alinovi cita il lavoro di MacAdams, con la sua Narrative Art e la sua idea di "fotografia come mistero." Quello di Gordon Matta Clarck, con le immagini di case maledette, di ruderi misteriosi che ritrae come spettri fantasmi, e quello di William Wegman, con la sua dog art, che predilige fotografie dai soggetti ironici in cui il protagonista è un grosso cane alano da lui chiamato Man Ray, il doppio istintuale e animalesco, l'alter ego dell'artista. Infine, Jimmy De Sana e Robert Mapplethorpe rappresentano i protagonisti dei futuri e rampanti anni '80. "Le loro foto trasudano di violenza metropolitana e insieme ne mettono in scena la parodia, con l'esibizione vistosa dei grotteschi armamentari sado- masochisti di repertorio.


" Jimmy De Sana ama fotografare corpi avvolti da bende o arti legati da spaghi, tra bondage e vere torture, deviazioni sessuali e fantasie malate.
"Le persone diventano equivalenti degli oggetti: tutti sono dolcemente violentati dall'obiettivo del sadico fotografo." Come per le donne, gli omosessuali e le minoranze etniche, anche la fotografia degli anni '70 ha vissuto una specie di movimento di liberazione che l'ha affrancata dalla precedente condizione di soggezione nei confronti della pittura. Del resto, la fotografia negli anni '70 ha conosciuto un vero processo di espansione in tutte le direzioni, privilegiando soprattutto i temi sessuali legati alle follie più visionarie e perverse riguardo ad un erotismo "polimorfo e convulso."

Pubblicato da Antonella Colaninno

IN FOTO: Rejlander, "The ways of life"; Carroll, "Bambine"; Cameron, Von Gloeden, "Ritratto di ragazzo siciliano con fiori della passione sul capo"; de Meyer, "Water lilies", "Roses in Vase" (nature morte);  Michals; Luthi, "Selfportrait", "Performance process"; Ontani; Mapplethorpe, "Milton Moore", "Robert Mapplethorpe e Creland New York City, 1971"; De Sana, "101 Nudes"