Nudo di donna EGON SCHIELE















martedì 19 agosto 2014

FRANCESCA ALINOVI E L'ARTE DI FRONTIERA


“L’arte d’avanguardia non solo non è morta, ma ha dissotterrato la sua ascia di guerra e batte il tam tam lungo le linee di frontiera di Manhattan: 1982, fuga da New York”. FRANCESCA ALINOVI




di Antonella Colaninno

Anticipare i tempi e il divenire di una situazione artistica ” […] che si è poi venuta sviluppando in forme quasi vertiginose fino a diventare emblematica, se non dell’intero arco della ricerca artistica dell’ultima stagione newyorchese, almeno di ciò che con più urgenza oggi emerge nell’area della costa atlantica e nel baricentro di New York, riducendosi per linee non marginali al più diramato contesto dell’american graffiti”. (Francesco Solmi, prefazione ad Arte di frontiera di Francesca Alinovi) 

Francesca Alinovi, critica d’arte del DAMS di Bologna, attenta e sensibile protagonista della scena critica internazionale di quegli anni, ci ha lasciato un importante contributo sull’arte di frontiera, un approfondimento appassionato sull’arte dei graffiti che emergeva come avanguardia destinata ad essere non solo fenomeno di moda della nuova generazione new wave, ma una traccia  indelebile del progredire del contemporaneo. Francesca Alinovi ha registrato nei suoi scritti tutte le esperienze maturate nel corso dei suoi studi e dei suoi viaggi a New York accanto ai protagonisti della scena di strada del South Bronx. “L’attuale arte d’avanguardia, più che sotterranea, è arte di frontiera; sia perché sorge, letteralmente, lungo le zone situate ai margini geografici di Manhattan […] sia perché, anche metaforicamente, si pone entro uno spazio intermedio tra cultura e natura, massa ed èlite, bianco e nero (alludo al colore di pelle), aggressività e ironia, immondizie e raffinatezze squisite”. La creatività non può prescindere da questo contesto urbano o suburbano che dir si voglia e “nel Bronx tu vedi crescere assieme piante e fili elettrici, animali e carcasse d’automobili, uomini e tecnologia”. L’arte di frontiera è natura e cultura, barbarie e civiltà. Estetica dell’eterna infanzia che diventa dimensione metropolitana. “[…] vivere nel Bronx è eccitante, perché ritrovi forze vergini vivendo accanto a comunità di non acculturati nel senso  tradizionale del termine, in un ambiente terzomondista che si è rifatto natura a due minuti dal cuore di Manhattan”. L’arte di frontiera si racconta per “immagini-parole” che nascono da una dimensione puramente individuale. Esse sono una scrittura veloce di simboli che si nutre degli stimoli dell'immaginario elettronico e trasforma  le parole in onde sonore nello spazio che diventa fantascienza, quartiere degradato. Il nuovo linguaggio supera le minoranze e diventa lo slang del 2000 per riscattare anche nell’arte le diversità razziali. Una vera avanguardia che muoverà i primi passi negli anni Ottanta  organizzandosi in collettivi e in spazi no-profit. CoLab (Collaborative Projects, Inc.) è “un gruppo molto agguerrito di artisti che decide di organizzare una grande mostra pubblica aperta a chiunque voglia esporre, artisti e non artisti, vecchi e bambini, bianchi e neri, dilettanti e professionisti, in antagonismo, proprio come nella tradizione di un’avanguardia che si rispetti, nei confronti di musei, gallerie e perfino dei cosiddetti non-profit spaces, gli spazi alternativi, sorti negli anni ’70, trasformatisi col tempo in mostruosi marchingegni burocratici”. “Fashion Moda è una galleria molto poco convenzionale, e per nulla commerciale, che da tre anni vive con successo, impiantata nel più pericoloso e malfamato quartiere di New York, il South Bronx”. “Museo di scienza, arte, tecnologia, invenzione e fantasia, e assieme come concetto culturale e qualcosa di essenzialmente inedito e differente”. Così definiva il suo spazio Stefan Eins, direttore  insieme a Joe Lewis della galleria, all’incrocio tra la Third Avenue e la 149° Strada. Una galleria nata con lo scopo di condividere un’idea democratica di cultura non più esclusivamente elitaria, che univa gli artisti alla gente che viveva questi luoghi. Fashion Moda  cercava di “combinare un forte sentimento locale, etnico, con un forte sentimento planetario”
“Da questo clima di libera avventura è stato creato un linguaggio sofisticato e complesso con l’intento particolare che esso possa essere visto e goduto nel mondo dei sobborghi urbani, in mezzo al caos e al fragore della vita reale e della gente reale”. Sono gli artisti di frontiera con le loro storie di infantile tragedia mai cresciuta, e di speranze soffocate troppo presto dalle droghe e dalla malattia. 


Rammellzee è l'artista del Panzerismo iconoclasta e della guerra delle lettere con l’esercito dei suoi soldati: A ONE, B ONE e C ONE. Morto a soli 49 anni, conosceva, pur non avendo mai studiato, i manoscritti dei monaci medievali e le lettere gotiche viste sui testi originali alla Biblioteca di Bryant Park, tra la 42° Strada e la 5° Avenue. Il suo esercito di lettere si divideva in lettere armate e lettere disarmate: “le prime assomigliano ad antichi guerrieri medievali armati di missili, le seconde si presentano decorate di fiori. Questo è lo stile ornamentale, il primo è lo stile “armamentale” . “Rammellzee non ha mai letto McLuhan, eppure parla di un esercito di lettere in guerra analogo all’esercito dei denti del drago guerriglieri del mito di Cadmo. Rammelzee non ha mai letto Orwell, eppure ipotizza la fine del sistema di comunicazione occidentale per il 1984”. 


Kenny Scharf, con i suoi collage interni all’opera, impresse nel colore, lascia scorrere  per frammenti le immagini, come “isole di senso senza nessun legame di continuità”. I disegni di Keith Haring sono scrittura veloce, calligrafia nello spazio che diventa ideogramma e  procede come un fotogramma da fumetto. Questi artisti avvertono la decadenza di un’epoca dominata dall’eccesso e dal disastro. “La cultura della catastrofe e dell’apocalisse trasforma  i geroglifici di Keith in figure elementari di umanoidi infantili, bambini degenerati in serpi tortuose ma uniti con cordoni ombellicali ai tubi catodici della TV e ai fili aggrovigliati del telefono”. “Il bambino radioso, l’emblema firma di Keith, contaminato da animali e da macchine tecnologiche voraci, si esibisce in frenetiche avventure di sesso e di alienazione”. 

John Ahearn, ex fondatore di CoLab, raccoglie  i suoi esemplari umani, tutti di pelle scura, e li sistema in regolare successione sulle pareti degli edifici  in una sequenza che denuncia “un’esplosiva forza razziale”. E ancora, Ronny Cutrone, che lavorava nella Factory di Andy Warhol, Donald Baechler, e Judy Rifka. Una minoranza multietnica che si è imposta sul mercato dell'arte con un linguaggio di maggioranza, attinto dai mass-media e dall’universo digitale, che ha coniato slangs personali e confuso i sistemi della comunicazione attuale, artisti che "escono dai ghetti della periferia, coi piedi imbrigliati tra i rottami ma col cervello fatto levitare dalle onde telepatiche di informazione onnidiffusa che viaggia sotto i cieli di New York” . Francesca Alinovi.



Pubblicato da Antonella Colaninno

In foto: Francesca Alinovi; Keith Haring; Francesca Alinovi; il gallerista Tony Shafrazi; Rammellzee; Kenny Scharf; John Ahearn; Kenny Scharf: