di Antonella Colaninno
“Strappare i manifesti dai muri è l’unica rivalsa,
l’unica protesta contro una società che ha perduto il gusto dei mutamenti e
delle trasformazioni.” Così dichiarava Mimmo Rotella (Catanzaro, 1918 – 2006)) a
proposito della sua pratica di strappare i manifesti dai muri per poi ridurli
in frammenti e riutilizzarli al contrario. Rotella risente del clima caldo
della politica di quegli anni, quando per strada si usava strappare i manifesti
politici degli avversari, e i muri apparivano così scrostati e invasi da
frammenti di carta, tra avanzi di colore, di immagini e di parole. Lo strappo è
un gesto di protesta, non solo sociale ma rivolto anche al linguaggio realista
dell’arte, alla pittura da cavalletto, al realismo delle ideologie che invadono
gli spazi pubblici. Un gesto di rivoluzione verso il potere dell’immagine e la
sua forza alienante, che dilaga sui manifesti pubblicitari. L’arte di Rotella si colloca sulla tradizione
del recupero dei materiali, un po’ come ha fatto Burri con le “muffe” e i “catrami”,
sulla scia della avanguardia dadaista che ha rivoluzionato l’estetica decretando
la morte dell’arte. Il suo lavoro informale finisce per affermare alla fine il
ruolo della materia e soprattutto dell’immagine, se pur nelle sue svariate
combinazioni di smembramento e ricomposizione che consentono all’artista di
partecipare e di intervenire attraverso una manipolazione, sulla realtà, con decollages
e reportages.
C’è da parte dell’artista la volontà di appropriarsi dell’oggetto
che si reinventa attraverso i suoi stessi processi comunicativi. Nei reportages
infatti Rotella utilizza il mezzo meccanico
per documentare e ricreare la realtà, e le immagini dei quotidiani, delle
riviste e dei posters pubblicitari vengono riportate fotomeccanicamente su tele
emulsionate. “Il mondo di immagini violentissime che ci circonda (segnaletica
stradale, cartelloni, manifesti, semafori, automobili coloratissime,
pubblicità) non può non colpire la retina e la fantasia del pittore, al di
fuori di ogni pretesto figurativo in senso tradizionale. Nel mio lavoro io
cerco di tener conto delle impressioni e degli shock che ricevo continuamente.”
L’arte non è più solo un prodotto individuale, un’esperienza emotiva, ma in Rotella
si apre alla società e all’immaginario collettivo, diventa essa stessa prodotto
culturale di massa. La strada, la realtà
urbana entrano nei territori dell’arte, sono essi stessi oggetto artistico
condiviso. Negli artypo, fogli di prove di stampa usati in tipografia per
avviare le macchine, scompare completamente l’intervento dell’artista se non
nel passaggio tutto concettuale, di questi oggetti, irrilevanti e destinati al
macero, nel processo comunicativo dell’arte, in una decontestualizzazione e
ricollocazione da ready made duchampiano. Rotella riconosce l’aspetto illusorio
e visionario della rèclame, ma ne subisce il fascino, per questo le immagini dei
divi della pubblicità pur nella loro artificialità, ritornano nella seconda
fase del suo lavoro.
Nella percezione di queste immagini si resta disorientati per
la varietà e la quantità di informazioni a cui lo spettatore è sottoposto:
sfugge la complessità delle immagini così come la loro particolarità di dettagli.
Anche lo sguardo infine diventa artificioso e si perde nei sensi
confusi, per la convivenza di immagini diverse su un’unica porzione di spazio, quasi a voler rappresentare, unendosi e confondendosi tra loro, la grande
complessità dei tempi contemporanei. Perché in fondo qual è il compito dell’arte
se non quello di rivelare e raccontare la condizione umana, e di mettere in
discussione con coraggio la morale?
Pubblicato da Antonella Colaninno
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