di Antonella Colaninno
Con la mostra di Alberto Burri, il Guggenheim Museum di
New York ha chiuso le celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista
umbro (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995). Si è conclusa infatti lo scorso
gennaio la mostra dal titolo “The Trauma
of Painting” che ha portato nella grande mela uno dei maestri dell’arte del
Novecento italiano. Il confronto con Lucio Fontana sembra inevitabile: dalle
superfici bucate e tagliate che hanno aperto il dibattito su una nuova visione
dello spazio, Burri ha invece sperimentato le superfici increspate che dalla tela hanno raggiunto la massima espansione nel contesto naturale del Grande Cretto
di Gibellina, un progetto che sposa il paesaggio e recupera la memoria storica
del luogo nella sua fisionomia di land art e di architettura di paesaggio. Non
si può parlare di rivoluzione estetica nell’arte del Novecento senza
considerare i diversi livelli di percezione dello spazio che i due artisti
hanno sperimentato. Ricerca di equilibrio, innovazione e rispetto della forma,
anche quando la materia si trasforma e si reinventa nelle operazioni più “trasgressive” dei sacchi cuciti e
rattoppati, caratterizzano il lavoro artigianale di Alberto Burri, che non
dimentica mai la tradizione classica dell’arte nel suo essere artista "demiurgo". Ma in fondo la classicità è presente in molti artisti informali, e classico
è stato a suo modo anche Piero Manzoni, nell’ordine e nell’equilibrio delle composizioni
e nel suo reinterpretare la scultura
attraverso i corpi viventi. Il senso della classicità e quindi della bellezza
intesa come equilibrio formale e perfezione, è presente anche nelle poetiche superfici
monocrome di Ettore Spalletti, suggestive evocazioni di una spazialità
indefinita eppure comprensibile alla nostra sensibilità, così lontana e così vicina nel tempo da essere perfettamente in
sintonia sia con gli spazi moderni di un’architettura come il MAXXI, e sia con le sale del cinquecentesco Palazzo Cini
sul Canal Grande. Persino un artista come Jannis Kounellis ha una continuità
intellettuale con la classicità, nel suo considerare la modernità un corpo
capace di indossare su di sé il proprio passato: “la modernità è indossare questo passato.” “Fontana non era un
modernista. I suoi tagli sono delle ferite sulla pelle. E’ Caravaggio che mette
il dito di San Tommaso nella ferita del costato di Gesù.” “Queste ferite ci portano nel dramma di una
figurazione, esprimono la volontà di ricongiungersi con una realtà”. Lo
spazio di Burri non può certo considerarsi un luogo esclusivo
dell’immaginazione e neppure la proiezione di un progetto concettuale come
invece lo fu per Fontana. Questo lo dimostra il grande sudario bianco di
cemento che dagli anni ’80 ricopre il centro della cittadina siciliana di
Gibellina, distrutta poco più di dieci anni prima da un terremoto.
Qui le
crepe della tela diventano spazio reale, luogo tangibile dell’esperienza, una
massa di superficie spaccata al suo interno, un percorso di cretti arso e
“sofferto” che può essere percorso come un sentiero che conduce ad un passato
immaginario ma realmente esistito, abitato dai suoi fantasmi. La retrospettiva
americana è stata la seconda tappa nella grande mela per Alberto Burri, già
celebrato nel 1977 con una personale al Guggenheim dal titolo “Alberto Burri: A Retrospective View 1948 –
1977”. A cura di Emily Brown e Megan
Fontanella, l’importante mostra al Guggenheim di New York ha ripercorso
filologicamente l’evoluzione stilistica
dell’artista italiano: “dai Bianchi e
dai Catrami del 1948, alle Muffe e ai Gobbi del 1950, ai Sacchi,
alle prime Combustioni del 1954, ai Legni, le Plastiche e i Ferri.” Il
video dell’artista Petra Noordkamp allestito in mostra, raccontava il grande
Cretto di Gibellina nel suo essere città fantasma e sempre eterna. La
classicità di Alberto Burri è nel suo passaggio rivoluzionario nella storia e
nell’arte, perché, come afferma Kounellis ,è nei “no” la rivoluzione di una “diversità sognata”, nella differenza
che apre il varco al nuovo per ripetersi nel tempo sempre sotto nuove spoglie, in
un modo sempre diverso, autorevole e liberatorio, di vedere e di proporre la propria condizione
storica ed emotiva.
Pubblicato da Antonella Colaninno
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