Nudo di donna EGON SCHIELE















domenica 6 marzo 2016

ALBERTO BURRI E LA RIVOLUZIONE DELLA DIVERSITA' SOGNATA



di Antonella Colaninno

Con la mostra di Alberto Burri, il Guggenheim Museum di New York ha chiuso le celebrazioni per il centenario della nascita dell’artista umbro (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995). Si è conclusa infatti lo scorso gennaio la mostra dal titolo “The Trauma of Painting” che ha portato nella grande mela uno dei maestri dell’arte del Novecento italiano. Il confronto con Lucio Fontana sembra inevitabile: dalle superfici bucate e tagliate che hanno aperto il dibattito su una nuova visione dello spazio, Burri ha invece sperimentato le superfici increspate che dalla tela hanno raggiunto la massima espansione nel contesto naturale del Grande Cretto di Gibellina, un progetto che sposa il paesaggio e recupera la memoria storica del luogo nella sua fisionomia di land art e di architettura di paesaggio. Non si può parlare di rivoluzione estetica nell’arte del Novecento senza considerare i diversi livelli di percezione dello spazio che i due artisti hanno sperimentato. Ricerca di equilibrio, innovazione e rispetto della forma, anche quando la materia si trasforma e si reinventa nelle operazioni più “trasgressive” dei sacchi cuciti e rattoppati, caratterizzano il lavoro artigianale di Alberto Burri, che non dimentica mai la tradizione classica dell’arte nel suo essere artista "demiurgo". Ma in fondo la classicità è presente in molti artisti informali, e classico è stato a suo modo anche Piero Manzoni, nell’ordine e nell’equilibrio delle composizioni e nel suo reinterpretare  la scultura attraverso i corpi viventi. Il senso della classicità e quindi della bellezza intesa come equilibrio formale e perfezione, è presente anche nelle poetiche superfici monocrome di Ettore Spalletti, suggestive evocazioni di una spazialità indefinita eppure comprensibile alla nostra sensibilità, così lontana e così  vicina nel tempo da essere perfettamente in sintonia sia con gli spazi moderni di un’architettura come il MAXXI, e sia  con le sale del cinquecentesco Palazzo Cini sul Canal Grande. Persino un artista come Jannis Kounellis ha una continuità intellettuale con la classicità, nel suo considerare la modernità un corpo capace di indossare su di sé il proprio passato: “la modernità è indossare questo passato.” “Fontana non era un modernista. I suoi tagli sono delle ferite sulla pelle. E’ Caravaggio che mette il dito di San Tommaso nella ferita del costato di Gesù.” “Queste ferite ci portano nel dramma di una figurazione, esprimono la volontà di ricongiungersi con una realtà”. Lo spazio di Burri non può certo considerarsi un luogo esclusivo dell’immaginazione e neppure la proiezione di un progetto concettuale come invece lo fu per Fontana. Questo lo dimostra il grande sudario bianco di cemento che dagli anni ’80 ricopre il centro della cittadina siciliana di Gibellina, distrutta poco più di dieci anni prima da un terremoto. 

Qui le crepe della tela diventano spazio reale, luogo tangibile dell’esperienza, una massa di superficie spaccata al suo interno, un percorso di cretti arso e “sofferto” che può essere percorso come un sentiero che conduce ad un passato immaginario ma realmente esistito, abitato dai suoi fantasmi. La retrospettiva americana è stata la seconda tappa nella grande mela per Alberto Burri, già celebrato nel 1977 con una personale al Guggenheim dal titolo “Alberto Burri: A Retrospective View 1948 – 1977”. A cura  di Emily Brown e Megan Fontanella, l’importante mostra al Guggenheim di New York ha ripercorso filologicamente l’evoluzione  stilistica dell’artista italiano: “dai Bianchi e dai Catrami del 1948, alle Muffe e ai Gobbi del 1950, ai Sacchi, alle prime Combustioni del 1954, ai Legni, le Plastiche e i Ferri.” Il video dell’artista Petra Noordkamp allestito in mostra, raccontava il grande Cretto di Gibellina nel suo essere città fantasma e sempre eterna. La classicità di Alberto Burri è nel suo passaggio rivoluzionario nella storia e nell’arte, perché, come afferma Kounellis ,è nei “no” la rivoluzione di una “diversità sognata”, nella differenza che apre il varco al nuovo per ripetersi nel tempo sempre sotto nuove spoglie, in un modo sempre diverso, autorevole e liberatorio,  di vedere e di proporre la propria condizione storica ed emotiva.

Pubblicato da Antonella Colaninno


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