Nudo di donna EGON SCHIELE















venerdì 22 luglio 2011

“COMPAGNIA DEI SUPER – GETTONATI” O ARMATA BRANCALEONE?






In un articolo di Antonio Armano pubblicato sul settimanale Saturno si parla dei “gettoni”di presenza dati agli autori per la partecipazione alle serate culturali. L’autore ricorda gli anni '50 quando il nome gettoni, veniva usato per intitolare una collana Einaudi diretta da Ennio Vittorini. Il mio ricordo va invece a tempi più recenti e si associa a una monetina dal taglio particolare, il famoso gettone, che possiamo ormai considerare simbolo di un'epoca, che consentiva di parlare al telefono. Ricordo di ragazzi che mi chiedevano di comporre in cabina un numero di telefono e di chiedere di una tal ragazza che evidentemente si negava alle loro insistenti telefonate. Ma i gettoni sono stati per me non solo occasione di anonime telefonate galeotte, ma anche di fugaci appuntamenti dei miei amori giovanili, lontani dalle orecchie indiscrete dei miei genitori.
Ma si sa che la storia fa il suo corso e che tutto cambia, ma chi l’avrebbe mai detto che una strana monetina che innescava avventure passionali sarebbe poi diventata per estensione di senso, il compenso per la presenza degli autori agli eventi culturali? Altra cosa che dire il telefono la tua voce…se un gettone ha un valore che oscilla dai 5000 ai 50,000 euro! Colpa del “festivalismo”delle festivalate o della “festivalite”? E perché poi pagare solo gli scrittori? Qual è il ruolo dei moderatori o dei presentatori che poi lavorano per redigere i testi critici dei volumi letti? E che garantisco, spesso devono comprarsi persino i testi…E si sa, loro non vanno certo a finire nelle classifiche dei più letti o sarebbe il caso di dire, dei “più gettonati”. Insomma, la “cultura” assume sempre più le dimensioni di un grande business. Ma perché poi cedere all’euforia di un festival? O accontentarsi dell’ormai consueta e desueta frase fatta “incontri con gli autori”? L’Italia è il paese dei festival, non più solo di quello sanremese che impone modelli nei quali credo non si voglia riconoscere più nessuno. Siamo costretti a subire clichès, dalla politica alla letteratura, sino a un’arte che provocatoriamente ci dice che non è più cosa nostra. Alle volte basta scrivere un libro o meglio, farselo scrivere, scomodare qualche conoscenza e il gioco è fatto, qualche festival di provincia di qua e di là e siamo tutti scrittori, qualche spinta giusta che fa lievitare le vendite e si finisce nel giro dei “vip”. Per non parlare del povero spettatore che si ritrova lo stesso autore e lo stesso libro in ogni dove, una sorta di tournèe del provincialismo. A tutto questo poi si aggiungono le case editrici che in accordo con gli autori e gli organizzatori puntano ad un rilancio della propria immagine, dove il mercato dell’arte fa da esemplare modello con i suoi scandalosi progetti di vendita e di promozione di artisti che più convengono ai bisogni ma sul cui valore ci sarebbe molto da dire. Ma vi siete mai chiesti quanta gente partecipa a questi eventi? Chi fa cultura punta a incrementare un dibattito che sia di natura filosofica, scientifica, letteraria non fa differenza, creando punti di osservazione e di riflessione. Non mi è chiaro il perché poi, un festival debba tra l’altro investire sullo sviluppo di un territorio per il quale ci sono esperti di settore nelle amministrazioni preposte a farlo. Ma l’Italia è il paese del “così fan tutte” e della colpa è di Berlusconi. Ma fortunatamente c’è anche chi del Festival ne fa una giusta causa riuscendo a legare nel tempo i luoghi all’evento e a promuovere una strategia di affinità elettive tra il promotore e il fruitore di cultura. C’è chi è disposto a scommetterci, come Pier Luigi Sacco, e chi invece, come Diego Marani pensa che “l’Italia affondi nell’acqua alta dell’ignoranza mentre una muraglia di festival culturali tengono all’asciutto la poca intelligenza rimasta”. Certo, se poi si finisce per confondere la cultura con l’autoreferenzialità della erudizione i conti non tornano. 

Scritto da Antonella Colaninno

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