Nudo di donna EGON SCHIELE















domenica 17 luglio 2011

ILLUMInazioni 54a Biennale d'Arte Contemporanea











Pensare a Venezia come il luogo della contemporaneità della memoria credo sia la giusta riflessione per iniziare le mie considerazioni sulla Biennale. L’intera città è coinvolta in un dialogo con la contemporaneità nel quale confluiscono le memorie storiche dei suoi palazzi e delle sue collezioni d’arte, lasciando sconfinare gli spazi nell’atemporalità del non luogo della creatività.

Anche le ILLUMInazioni della Curriger sembrano voler superare le frontiere del tempo e creare punti di contatto tra passato e modernità, mettendo in relazione le singole identità e considerando la diversità una ricchezza e la sperimentazione un passo in avanti per la conoscenza. La scelta della Curriger di inserire tre opere di Tintoretto, considerato il pittore della luce e di un linguaggio innovativo, sottolinea la modernità della sua arte così diversa per il proprio tempo, riscoprendo la differenza come valore culturale aggiunto. Tintoretto è l’esempio di un passato che possiamo pensare nel suo valore di contemporaneità per essere ancora oggi un punto di riferimento per molti artisti anche nella attualità del suo essere stato un moderno ante litteram.

L’andata al Calvario di Peter Bruegel il vecchio interpretata dall’artista e scrittore polacco Lech Majewski nella suggestiva Chiesa di San Lio è sicuramente tra gli eventi collaterali più interessanti di questa Biennale, che spiega quanto possa essere attuale l’anacronismo di Bruegel, artista sicuramente moderno per la cultura del suo tempo. Il racconto delle torture inflitte dalla chiesa si snoda tra silenziose scenografie di  presagi di morte, in una veste surreale quanto metafisica, e diventa il simbolo delle tante violenze esplicite o celate sotto un crudele cinismo, che la nostra società infligge ai suoi “attori”. Il racconto ricorda i due sacrifici, quello anonimo delle milizie spagnole per punire gli eretici delle Fiandre nel 1563, e l'altro mitico della crocifissione, e viene proiettato in sequenze video su due arazzi digitali posti ai lati dell’altare maggiore. Gli strati di prospettiva e i fenomeni atmosferici portano lo spettatore a vivere gli eventi in prima persona.

Il ritorno di Pino Pascali a Venezia, già premio alla scultura nel ’68, in occasione della 34° Biennale, si avvale di un saggio di opere di artisti pugliesi e di artisti internazionali che dal 1997 ad oggi sono stati insigniti del Premio Pino Pascali. La mostra presenta opere di Pino Pascali e una serie di documenti e di cimeli provenienti dall’archivio della Fondazione omonima, tra carte, scenografie, collage e rare fotografie di Luigi Ghirri come Chiesa di Santo Stefano, Polignano a Mare del 1987, esposte per l’occasione al piano nobile di Palazzo Bianchi Michiel dal Brusà, sul Canal Grande. Pino Pascali rappresenta la contemporaneità di un passato più recente che si attualizza nel suo essere mito. Opere dedicate all’acqua come Progetto di balena (1966), Scogliera (1966), la serie dedicata alle navi e ai pesci, un tema caro a Pascali che scriveva. “[…] sono nato dove c’è il mare”, ma anche opere dedicate all’Africa e alla guerra. L’immaginario di Pascali è un universo libero e romantico nel quale si esorcizzano le paure e si recupera la ritualità di culture antiche. Egli ricostruisce la realtà con ironia e curiosità, mescolando i linguaggi e i materiali, guardando alla contemporaneità attraverso l’antico, sfiorando il paradosso e la provocazione, suscitando sottili osservazioni sulla rivoluzione culturale e ambientale in un distacco simbolico e intellettuale. “L’arte è trovare un sistema per cambiare[ …] quello che faccio è l’opposto della tecnica come ricerca, l’opposto della logica e della scienza”. I simboli sono l’espressione delle nostre emozioni e del nostro rapporto con il mondo. Pascali affermava che “dalla civiltà di consumo nasce un oggetto, invece i negri quando fanno gli oggetti creano una civiltà”.

Il tema di una possibile frontiera senza tempo, dove gli spazi sono immaginari e geograficamente sperimentali, è trattato nel progetto Xijing a cura di Beatrice Leanza e organizzato dalla Associazione Arthub Asia e dalla Fondazione Bevilacqua La Masa che ha offerto gli spazi della propia sede di Piazza San Marco per ospitare il progetto. Xijing che vuol dire capitale dell’Ovest, nasce dal collettivo dei tre Xijing men (Chen Shaoxiong, 1964; Tsuyoshi Osawa, 1962; e Gimhongsok, 1965) che operano da cinque anni e sono la realtà forse più importante dell’area asiatica. Si tratta di una interessante invenzione geopolitica che “accomuna” le capitali del Nord, del Sud e dell’Est del mondo. Un ricerca filosofico geografica che nasce dalla fantasia dei luoghi e da una cartografia dell’immaginario. Una specie di Arcadia postmoderna che coniuga politica e storia, paesaggio urbano ed economia.

La ricerca visionaria di Jan Fabre, artista surreale irriverente e ironico, unisce perfettamente passato e contemporaneità in una visione che recupera l’attualità del valore simbolico attraverso la simbologia dell’immagine. Pietas è il titolo di questa esposizione con sede presso la Nuova Scuola Grande di Santa Maria della Misericordia, una chiesa sconsacrata del XVI secolo, un’iniziativa promossa dal GAMeC di Bergamo, dallo State Museum of Contemporary Art di Salonicco e dal Kunsthistorisches Museum di Vienna e curata da Giacinto di Pietrantonio e Katerina Koshina. La rilettura della Pietà di Michelangelo, nella quale il Cristo ha il volto dell’artista, nasconde dietro l’apparente provocazione dello scambio di identità la profondità del messaggio religioso. Il teschio che si sovrappone alle sembianze di Maria diventa a simbolo di un destino di morte ineluttabile ma anche di quella compassione di un sentire comune che fa di una madre l’interprete perfetta delle sofferenze del proprio figlio. Il cervello tenuto nella mano vorrebbe forse inneggiare alla sacralità di questo organo che Fabre considera la parte più importante e persino più sensuale del corpo, tanto da affermare che “senza immaginazione non esiste erezione”. Un’indagine sul valore della diversità di cui il cervello rappresenta l’unicità e la preziosità di ogni individuo.

Ca’ Rezzonico, Museo del Settecento veneziano, ospita la personale dello scultore americano Berry X Ball dal titolo Portraits and Masterpieces che presenta una ventina di sculture provenienti dalle collezioni americane che danno una lettura contemporanea di alcune opere scultoree della classicità. Esse creano, nella traduzione plastica, un ponte ideale con il passato dove l’antico diventa la chiave di lettura del moderno. Un dualismo che spesso è presente nell’artista americano anche a livello formale come nell’opera Dual-dual Portrait che considera la differenza come l’unica possibile forma di unicità.

L’atrio di Palazzo Reale in piazza San Marco accoglie l’installazione del giovane talento siciliano Alessandro Librio dal titolo Palermo in Venice. Una lettura emotivamente forte ma delicata e poetica allo stesso tempo, della fragilità umana dinanzi all’oscurità della mafia. Una sedia al centro e di spalle un’altra coperta completamente da un panno nero; per terra, un vaso con fiori bianchi simbolo dell’innocenza e della purezza di tante vite spezzate. Il vento che muove la stoffa lascia presagire l’arrivo di qualcosa di oscuro di cui si percepisce la presenza minacciosa.

I padiglioni di questa 54a edizione della Biennale che quest’anno si arricchisce della presenza di altri 12 paesi, possono ricondursi pur nella diversità delle tematiche trattate, all’importanza del valore simbolico nell’interpretazione della realtà, come nell’esperienza di Christian Boltanski e del Padiglione francese curato da Jean Hubert Martin. Un padiglione certamente tra i più interessanti per il valore filosofico dell’opera e la qualità umana che lo contraddistingue. Chance è il titolo di una serie di installazioni; un lungo nastro di fotografie di neonati si muove velocemente nello spazio su un rullo gigante e si ferma su un’immagine a caso proiettando quel volto sul monitor. Si determina così il senso della casualità e quindi della fatalità degli eventi della vita che sono regolati dall’incedere della storia e dal potere di Dio che “afferra gli individui…e li rigetta nel vuoto”. “Alla mia età, ho l’impressione di camminare su un campo minato. I miei amici saltano in aria ed io continuo fino alla prossima esplosione”, afferma l’artista. “In ogni momento avrei potuto prendere una decisione contraria, ma non avevo alcuna possibilità di scelta[…]” Pur nella nostra unicità sostiene Boltanski, noi saremo sostituiti perché fa parte del progetto di “continuazione della vita” e, in quanto umani, proveremo a lottare contro il destino. Una riflessione profonda sul senso della vita e della storia nella quale si perpetua la memoria delle tante esistenze vittime di un progetto di vita già scritto.

“Una fuga dal centro”per ritrovare se stessi ed “evitare di essere ciò che gli altri si aspettano”. Questo il tema dell’opera L’inadeguato dell’artista spagnola Dora Garcia presente nel Padiglione spagnolo a cura di Katya Garcia-Antòn. L’inadeguatezza sfiora tutti gli ambiti del sociale, compreso quello artistico e solo restando “ai margini” è possibile sopravvivere ed essere creativi. Un’implicazione che come è ben evidente, sfiora la riflessione politica ed economica di un sistema spesso alienante per il rispetto della libertà dell’individuo. La fragilità sostiene l’artista, non è nell’inadeguatezza, “[…] ma in tutto ciò che consideriamo adeguato”. L’opera si svolge di continuo, per necessità propria e non risponde alle logiche di spettacolo e di pubblico; infatti, l’arte è per tutti ma solo l’èlite lo sa” (Katya Garcia-Anton).

Speech Matters è il titolo del Padiglione danese a cura di Katerina Gregos che ospita una collettiva di pittura, fotografia, installazione di fumetti incentrata sull’importanza della libertà di parola che investe anche il settore della creatività come forma autonoma di espressione, sulla quale la Danimarca si è sempre contraddistinta per la libertà di opinione. Un argomento di portata internazionale che investe i diversi settori sociali e che spesso è stato sminuito da una forma di comunicazione mediatica che se da una parte ne ha allargato la portata, dall’altra ne ha svuotato il senso, sottovalutando gli aspetti politici e culturali del fenomeno.

Il Padiglione del Venezuela a cura di Luis Hurtado riconduce le sue sperimentazioni al tema del simbolo e della sacralità ad esso connessa nelle opere-performance di Clemencia Labin con il suo video girato nel quartiere di Santa Lucia di Maracaibo nel quale si riflette sullo spazio come simbolo di aggregazione che diventa pubblico grazie all’arte. La sua performance Culto al cuerpo richiama antichi rituali anche nell’uso della maschera. Il simbolo è anche la chiave di lettura dell’irriverente ironia di Francisco Bassim, e della preziosa scultura di carta di Yoshi con chiari riferimenti alla semplicità, alla purezza e alla trasparenza.

Nel titolo denuncia L’arte non è cosa nostra del Padiglione Italia di questa 54a Biennale curato da Vittorio Sgarbi si coglie la sottile provocazione di una precisa scelta curatoriale che lascia a ben 200 esponenti della cultura la valutazione delle opere degli artisti più interessanti di questo primo decennio del nuovo millennio, selezionati da un Comitato tecnico scientifico composto non da critici d’arte ma da intellettuali, tra scrittori, poeti e registi di rilievo internazionale. Una scelta forte che mette in discussione il ruolo del curatore, figura controversa per alcuni, ma professionalmente riconosciuta in ogni manifestazione che si rispetti. L’arte non è interpretata dalla logica del critico curatore ma dal mondo della cultura in genere che da’ una risposta variegata ad un mercato italiano altrettanto eterogeneo e riflette sul proprio ruolo all’interno di un circuito internazionale sempre più competitivo. Una scelta indubbiamente trasversale e democratica che lascia però perplessi e che impone non scelte ragionate ma accostamenti di gusto e personalità diverse che rispecchiano quelle di un collezionismo e di un possibile mercato di nicchia. Un padiglione quello italiano, che non dimentica di commemorare i 150 anni dell’Unità d’Italia con un progetto di esposizioni nelle varie regioni italiane a cui si associano le venti Accademie di Belle Arti. Il Padiglione Italia ha previsto anche la presenza dei maggiori artisti italiani all’estero che espongono le loro opere negli 89 Istituti italiani di Cultura, presenti all’interno del Padiglione attraverso schermi televisivi. Al di là di ogni polemica e possibile giudizio, credo che questo Padiglione rispecchi quell’idea di confusione che ha investito la società italiana e che più che una sorta di contenitore del cattivo gusto debba essere piuttosto considerato (nella mancanza di una univocità di “gusto”), come lo specchio del disorientamento dei nostri tempi. In fondo l’arte contemporanea induce a perplessità, suscita riflessioni, scandalizza, provoca, si interroga, cerca un proprio ruolo, tenta di ricostruirsi una sua identità. C’è da chiedersi però, quanto questa scelta sia ragionata o piuttosto sia una volontà di esserci senza voler entrare nel merito di un ruolo, quello appunto del curatore, sul quale Sgarbi ha in fondo, delle perplessità e a cui il titolo “L’arte non è cosa nostra” può, con un gioco di parole e di significati fare riferimento. Una scelta che provocatoriamente mette in gioco anche il ruolo del critico, sempre più schiavo del mercato e di alcune volontà politiche che penalizzano la democrazia dell’arte e per l’arte e che sembra voler dire semplicemente, che forse l’arte non è più cosa nostra. Una frase questa, che può anche essere interpretata alla luce del ruolo dell’artista come una protesta verso un diritto alienato, quello appunto di poter essere liberamente un creativo, spesso compromesso dalle logiche del business. Una volontà progettuale o una provocazione? Una contestazione o una precisa scelta di immagine? Quali siano le reali motivazioni di questa scelta curatoriale possiamo solo ipotizzarle. Questo Padiglione Italia resta un’esperienza certamente particolare che rispecchia le insicurezze di un momento storico delicato a cui si vuole affiancare la testimonianza dell’attuale stato dell’arte italiana, vista da una prospettiva socioculturale di nicchia, a cui ben si riferirebbe la citazione della curatrice spagnola Garcia Antòn: “l’arte è per tutti ma solo l’èlite lo sa”. Esperienze pittoriche come quelle di Agostino Arrivabene con le visioni di San Sebastiano sul tema sacro delle cronache dei santi e nello specifico di Jacopo da Varagine si accostano alle provocazioni di Veneziani e del suo Cristo in croce sui cui slip si legge la scritta “IO VESTO PRADA” e all’irriverenza dei due nudi reali di Gaetano Pesce che esortano a non toccare perché trattasi di opere d’arte. Padiglione della provocazione o scelta di marketing, questo contenitore di arte italiana, tra riflessioni di natura storica e comunicazioni da slogan pubblicitari, resta forse un luogo per soffermarsi a riflettere, cercando di trovare l’equilibrio che possa ristabilire ruoli e meriti in una democrazia di fatto piuttosto che studiata a tavolino.

Scritto da Antonella Colaninno








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